LA SCARCERAZIONE DEL CARDINAL PELL E LA DITTATURA DELL'OPINIONE PUBBLICA
Al cardinale australiano, dato in pasto all'opinione pubblica come un mostro, nei 404 giorni di ingiusta prigionia era perfino vietato celebrare la Santa Messa
di Aldo Maria Valli
In questa Settimana Santa segnata da tanta sofferenza e desolazione a causa della pandemia, una luce arriva dall'Australia, dove l'Alta corte di giustizia ha prosciolto il cardinale George Pell da ogni accusa, ordinandone l'immediata liberazione e la cancellazione del suo nome dalla lista dei responsabili di abusi sessuali.
Pell, che si trova ora in un istituto religioso nei pressi di Melbourne, ha ottenuto la libertà dopo 405 lunghissimi giorni di prigionia, durante i quali gli era stato vietato persino di celebrare la Santa Messa.
Da più parti, in tutto il mondo, l'accanimento giudiziario contro il cardinale era stato denunciato come sintomo evidente di pregiudizio, in mancanza di prove contro Pell e anzi in presenza di tante testimonianze che lo scagionavano.
Tuttavia, il cardinale è stato dato in pasto all'opinione pubblica come un mostro, contro ogni più elementare garanzia di giustizia, lasciando passare come circostanze a carico accuse che in realtà si erano già dimostrate inconsistenti e fasulle.
Pell, questa la verità, nella moderna e liberale Australia ha subito un'autentica persecuzione perché non allineato con il progressismo dominante. L'accusa sottesa al processo era quella di essere un conservatore, un cattolico reazionario, non disposto al compromesso con i dogmi della modernità.
Forte è anche il sospetto che il processo a suo carico sia stato utilizzato da ambienti della polizia per distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica da un caso di corruzione.
L'annullamento della precedente condanna a carico di Pell è stato deciso all'unanimità da parte dell'Alta corte australiana: i sette giudici hanno così ribaltato il giudizio della Corte d'appello, emesso nello scorso agosto, che confermava la decisione del Tribunale di Melbourne del dicembre 2018.
UN CLIMA DA CACCIA ALLE STREGHE
Ricordiamo che il cardinale Pell, settantotto anni, arcivescovo emerito di Sydney e già prefetto della Segreteria per l'Economia della Santa Sede, si è sempre dichiarato innocente.
Subito dopo la scarcerazione, Pell ha detto di non nutrire alcun risentimento verso la persona che lo ha accusato, un ministrante della cattedrale di Melbourne.
Se posso permettermi un'annotazione personale, ricordo che nel luglio del 2008, quando andai in Australia per seguire il viaggio di Benedetto XVI in occasione della Giornata mondiale della gioventù, mi resi conto dell'ostilità diffusa nei confronti di Pell. Durante un'inchiesta, parlando con professionisti, insegnanti e docenti universitari, verificai che il cardinale era considerato per lo più un conservatore intollerante, esponente di una Chiesa arretrata, incapace di cogliere i segni dei tempi e di praticare lo stile del "dialogo" con il mondo.
Non sorprende quindi che il processo al cardinale si sia svolto in un clima da caccia alle streghe, tanto che il professor John Finnis, filosofo del diritto dell'Università di Notre Dame e docente emerito di Oxford, ha parlato di "disastro giudiziario" che dovrebbe fare inorridire tutti quelli che hanno a cuore lo stato di diritto, il giusto processo, la presunzione di innocenza e altri istituti civili ritenuti sacri.
Il clima in cui si sono svolti i processi, con Pell e i suoi avvocati insultati dagli attivisti e quasi tutti i mass media impegnati ad alimentare un clima di odio, fa capire come possa diventare difficile ottenere un giudizio equanime anche in uno Stato di diritto.
La vicenda del cardinale Pell (alla quale si può accomunare quella del cardinale Barbarin, prosciolto dalla Corte d'appello del Tribunale penale di Lione, che ha accolto il ricorso del porporato contro la condanna in primo grado per non aver denunciato i maltrattamenti di un sacerdote nei confronti di un minorenne) ha molto da insegnare sotto diversi punti di vista.
MI LIMITO QUI A CONSIDERARNE UNO
Riguarda quella che potremmo chiamare la dittatura dell'opinione pubblica, e cioè il fatto che quando il pensiero dominante vuole che una persona sia condannata, tale volontà si impone su tutto, anche sul sistema giudiziario, facendo venir meno ogni garanzia.
La prova di questa forma di dittatura sta nel fatto che non c'è paragone tra il clamore (per non dire la vera e propria gazzarra) suscitata dagli accusatori contro il malcapitato di turno e il silenzio con il quale in genere viene poi accolto il verdetto di assoluzione.
Il ruolo dei mass media in tutto ciò è ovviamente determinante, il che fa capire quanto sia importante la controinformazione nell'epoca della dittatura del pensiero mainstream. La lotta tra la verità e la menzogna richiede un impegno quotidiano.
Ricordo che, nel caso del processo a Pell, il velo della menzogna a un certo punto è stato squarciato da un giornalista, non cattolico e neppure credente, che ha semplicemente fatto il suo dovere: si tratta di Andrew Bolt, che in una puntata del suo Bolt Report, su Sky News, ha ripercorso minuziosamente l'intera storia arrivando a questa conclusione: "Non solo è improbabile che il cardinale Pell abbia commesso il crimine, è proprio impossibile".
Quando poi Sky News e Bolt hanno subito pressioni e minacce per essere andati alla ricerca della verità, il giornalista ha sbottato così: "Ma, dannazione! La giustizia deve pur contare qualcosa in questo Paese!".
Trovo questo commento molto appropriato.
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Titolo originale: La vicenda Pell e la dittatura dell'opinione pubblica
Fonte: Radio Roma Libera, 8 Aprile 2020