ADDIO A SOLZHENITSYN, DENUNCIO' AL MONDO IL REGIME CHE CREDEVA DI AVER CANCELLATO DIO
di Piero Sinatti
"Alla fine della mia vita posso sperare che il materiale storico i temi storici, i quadri di vita e i personaggi da me raccolti e presentati, riguardanti gli anni durissimi e torbidi vissuti dal nostro Paese, entreranno nella coscienza e nella memoria dei miei connazionali (...). La nostra amara esperienza nazionale ci aiutera' nella possibile nuova ripresa delle nostre mutevoli fortune, ci mettera' in guardia e ci terra' lontani da rovinose rotture".
Parole simili a un congedo e a un testamento spirituale, pronunciate dal grande scrittore russo Aleksandr Isaevich Solzhenitsyn nel giugno 2007, quando gli fu conferito il massimo premio di Stato per "i grandi risultati raggiunti in letteratura": poco piu' di tredici mesi prima della morte che lo ha sorpreso, la notte di domenica 3 agosto a oltre 89 anni. Era da tempo gravemente ammalato e costretto a muoversi in una sedia a rotelle, nella sua appartata e boschiva residenza di Troitse-Lykovo, presso Mosca. Residenza in cui, in quella importante occasione, accetto' e ricevette la deferente visita di Vladimir Putin. Privilegio che non ebbe Boris Eltsin, da cui lo scrittore respinse la concessione di quella stessa onorificenza.
UN GRANDE TESTIMONE DEL TEMPO
Con Solzhenitsyn scompare uno dei piu' grandi testimoni del XX secolo. Una vita intera segnata da un indomabile coraggio e un'alta moralita', civile e religiosa, da una profonda coerenza tra vita e opera intellettuale e letteraria, secondo la sua principale professione di fede: "Non vivere secondo menzogna". Premio Nobel per la letteratura nel 1970, Solzhenitsyn (nato a Kislovodsk, sud-est russo, l'11 dicembre 1918, da una famiglia di agiati agricoltori, fisico e matematico per formazione) e' stato il primo scrittore a vedere pubblicata in Urss (novembre 1962) un'opera incentrata su un tema fino ad allora tabu': la vita di un campo di prigionia dell'epoca staliniana. Si tratta del romanzo breve Una giornata di Ivan Denisovich, apparso con grande clamore e con un lungo e fitto seguito di polemiche, nella rivista letteraria "Novyj Mir", grazie al parere favorevole del suo direttore, il famoso poeta Aleksandr Tvardovskij, e dell'allora leader "destalinizzatore" del Pcus Nikita Khrusciov.
Con realismo degno della migliore narrativa russa (tra Tolstoj e Cekhov) Solzhenitsyn vi rappresento' un giorno trascorso in un lager da un semplice contadino ed ex-soldato, Ivan Denisovich Shukov, che e' riuscito ancora una volta a sopravvivere alle fatiche e agli stenti del lavoro forzato, mantenendo intatta la propria coscienza in un mondo di gerarchie crudeli e imposizioni volente.
L'ARCIPELAGO GULAG
E' al tema concentrazionario che restano indissolubilmente legati il nome e il destino di Solzhenitsyn, che alla meta' degli anni Settanta, subito dopo la sua espulsione dall'Urss, pubblico' all'estero (presso l'editrice parigina in lingua russa Ymca Press) i sette libri in tre volumi del monumentale Arcipelago Gulag, la piu' grande e originale ricerca documentario-letteraria costruita attraverso le testimonianze da lui raccolte in gran segreto tra oltre duecento persone che avevano vissuto l'esperienza del lager, al pari e piu' dello stesso scrittore. Lo stesso Solzhenitsyn aveva scontato una condanna a otto anni di lager tra il 1945 e il 1953, reo di aver criticato in una lettera scritta al fronte la condotta di guerra di Stalin. Grazie a quest'opera, cui lo scrittore aveva lavorato con tenacia e intransigenza per piu' di un decennio, l'acronimo Gulag (Direzione centrale dei lager) e' diventato il simbolo piu' conosciuto e onnicomprensivo dell'intero sistema sovietico negli anni di Stalin.
Nell'Arcipelago, Solzhenitsyn rappresenta tutti i cerchi dell'inferno concentrazionario, compresi quegli estremi della Kolyma, ovvero "il crematorio bianco" dell'estremo nord-est sovietico (raccontato con impareggiabile efficacia artistica da un altro superstite del Gulag, Varlam Shalamov, che con Solzhenitsyn ebbe rapporti difficili). L'Arcipelago e' una vera e propria requisitoria contro il sistema concentrazionario, segnata da un'efficacissima diversita' di registri linguistici e letterari. Possiamo parlare di altissima oratoria storico-artistica, che inchioda per sempre alle sue immani responsabilita' il sistema totalitario-inquisitorio creato da Lenin e da Stalin. Un'opera gigantesca, mai apparsa fino ad allora.
Oltre a queste due opere, Solzhenitsyn dedica alla tematica del lager altri due grandi libri, scritti negli anni Sessanta, prima del suo forzato esilio che inizia nel 1974 e si protrae per un ventennio, prima in Svizzera, poi negli Stati Uniti. Sono Il primo cerchio e Padiglione cancro. In quest'ultimo l'autore parla della sua miracolosa guarigione dal cancro, avvenuta in un ospedale dell'Asia centrale. Non ne viene autorizzata la pubblicazione: si afferma il "rigelo" di Leonid Brezhnev e si chiudono gli spazi, pur angusti, prima concessi da Khrusciov alla critica dello stalinismo. Lo scrittore si trasforma, in quegli anni, in un nemico da mettere a tacere con tutti i mezzi (persino l'avvelenamento).
I due romanzi in parte autobiografici sono pubblicati per la prima volta in Occidente: in essi l'autore sviluppa, con trame avvincenti, temi di alto livello etico: il male, la sua affermazione e la resistenza che vi si oppone; la responsabilita' dell'individuo, dell'intellettuale e quella collettiva di fronte al potere e alla storia; lo scontro tra l'idealismo libertario ed egualitario e la tetra realta' del sistema autoritario-burocratico, delle sue violenze e dei privilegi di cui gode la "nuova classe". Si puo' affermare che con queste quattro opere - assieme a preziosi racconti come La casa di Matriona - Solzhenitsyn raggiunge i risultati artistici e letterari piu' alti. Mai piu' raggiunti nelle opere successive, tra cui spicca per la mole - e per il totale insuccesso di critica e di pubblico - del grande ciclo narrativo in quattro volumi di circa cinquemila pagine, La ruota rossa, scritto durante l'esilio nel Vermont e incentrato sulle origini della Rivoluzione d'Ottobre e della sua affermazione. E' un severo processo intentato dall'autore alla classe politica russa prerivoluzionaria, alla dinastia e soprattutto all'intelligentsija radicale (e liberale), responsabili della catastrofe in cui dal 1917 sprofonda la Russia.
ALTRE OPERE
Solzhenitsyn, il cui Ivan Denisovic fa da battistrada alla memorialistica sui tempi di Stalin e alla "letteratura campagnola" (Mozhaev, Rasputin, Abramov), ha al suo attivo una vastissima opera di documentazione storica e una vasta pubblicistica di carattere storico, etico e politico sui temi piu' diversi. La sua vis polemica non risparmia nessuno. Serrata e' la critica alle filosofie illuministe e radicali, in nome dei valori tradizionali e religiosi. E ancor piu' veementi sono gli attacchi al sistema mediatico, al consumismo e all'"onnipermissivismo" occidentali (si veda il suo Discorso di Harvard), oltre alla continue critiche ai limiti del sistema democratico occidentale.
Tutto questo gli inimica i circoli "liberal" americani, oltre a quelli perennemente ostili delle diverse e cangianti sinistre europee. E infine, i "liberali" russi post-sovietici. Nel 1994 ritorna da trionfatore in Russia. Alla fine della perestrojka gorbacioviana erano state pubblicate in Urss le sue opere principali. Atterra a Magadan, citta' della Kolyma, simbolo del Gulag. Quell'anno in un duro e poco applaudito discorso alla Duma definisce (per primo) "oligarchico" il sistema installato da Eltsin: vi dominano i pochi che si stanno spartendo le ricchezze del Paese, in un quadro di miseria generalizzata. Seguono insuccessi editoriali e televisivi, ostilita' e attacchi feroci. Pochi anni prima, aveva pubblicato un pamphlet, Come ricostruire la Russia, in cui auspica la costruzione graduale di un sistema politico basato sull'autogoverno locale e di un'economia mista, di ispirazione solidaristico-cristiana. Auspica l'unione tra Russia, Ucraina e Bielorussia, i fratelli slavi uniti - secondo lui - dalla comune storia e dal comune credo religioso: l'ortodossia.
LE ULTIME ACCUSE
L'ultima grande opera (per mole e impegno storico) di Solzhenitsyn e' il saggio in due volumi Duecento anni insieme (2001-2002). Vi descrive i difficili rapporti tra ebrei e russi negli ultimi due secoli. Il libro si propone come "una ricerca di tutti i punti di comprensione comune e di tutte le possibili strade verso il futuro, purificate dalle amarezze del passato". Seguono pochi consensi, ancor meno lettori e molti attacchi velenosi.
Riaffiorano le vecchie accuse di antisemitismo, gia' emerso, secondo i critici, nella sulfurea rappresentazione del rivoluzionario ebreo-russo-tedesco Helphand, alias Parvus, in un volume della Ruota rossa. Infine, a un anno della morte, Solzhenitsyn si rende colpevole, agli occhi dei liberali occidentali e russi, di un altro delitto imperdonabile. Lo ha commesso nella sua ultima intervista (concessa al settimanale "Der Spiegel"), in cui attribuisce a Putin il merito di "una lenta e graduale ripresa della Russia... dopo aver ereditato un paese saccheggiato e disorientato, con un popolo povero e demoralizzato". A noi sembra che ancora una volta, anche su questo controverso tema, Solzhenitsyn abbia dimostrato di volere e sapere andare controcorrente, forte dei suoi convincimenti, sempre fermi e severi. Come sempre ha fatto nella sua lunga esemplare esistenza.
Fonte: fonte non disponibile, 4 agosto 2008
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