ONCOLOGA, VENT'ANNI ACCANTO A VERONESI: ''ERO A FAVORE DELL'EUTANASIA, MA...
... oggi rimango atea, ma Eluana non si deve uccidere!''
di Lucia Bellaspiga
Dopo una carriera spesa a combattere per il «diritto all'eutanasia», un anno fa l'annuncio choc ripreso da tutti i giornali: «Ho un cancro inguaribile al midollo, presto morirò. Ora, da malata, dico no all'eutanasia». Sylvie Ménard, oncologa di fama internazionale, fino ad aprile direttore del Dipartimento di oncologia sperimentale all'Istituto dei Tumori di Milano e per vent'anni impegnata nella ricerca accanto a Umberto Veronesi, scoprì di essere condannata il 27 aprile del 2005. Proprio lei si trovava improvvisamente dall'altra parte della barricata. «All'inizio mi ribellai e decisi di non curarmi: a che serve curarsi se si è inguaribili? Poi ogni prospettiva è cambiata e la mia vita è divenuta molto più piena e degna di essere vissuta di prima».
Perché? Che cosa era successo?
Quando si è sani si parla di vita e di morte come valori filosofici, senza calarsi nella realtà. Ma quando ti trovi in prima persona nella condizione del malato, le prospettive cambiano, così come le priorità. Io stessa partivo lancia in testa a favore dell'eutanasia, mi pareva un diritto di 'libertà', senza approfondire... Essendo francese, poi, per me la libertà è particolarmente importante. Il fatto è che tutti combattiamo per l'eutanasia, ma come diritto del vicino: quando ho dovuto ragionare della morte vera, la mia, la vita ha preso valore, tutta, fino all'ultimo istante.
Dunque la volontà espressa da sani cambia quando si è malati?
Radicalmente. Quale persona, da sana, accetterebbe una prospettiva spaventosa come la Sla o un cancro gravissimo? Chiunque dice «se succedesse a me non vorrei vivere un solo giorno»... Invece quando ti capita, se hai ancora delle cose da realizzare, se senti che chi ti circonda ti ama, e soprattutto se i medici ti evitano la sofferenza fisica, il tempo che ti resta acquista una qualità prima sconosciuta: la vita quando ti sembra illimitata non la vivi appieno, è quando la stai per lasciare che la valuti.
Dunque lei sarà contraria anche al testamento biologico.
Quello che io stessa avrei scritto prima del 2005, lo avrei strappato dopo il cancro. Perché piuttosto che batterci per una 'degna morte' non ci si batte per una 'vita degna', affinché ogni cittadino abbia diritto alla terapia del dolore, a un accompagnamento totale, fisico e psicologico? Una volta accettata la propria morte capisci che è un fatto naturale, a condizione che sia serena e senza sofferenza, e oggi si può.
A questo proposito, Eluana non soffre ma alcuni considerano la sua una vita non degna.
Lo trovo spaventoso: non esiste una vita indegna. Può esserlo, tra virgolette, quella di un feroce assassino, certo non quella di un malato. Eluana respira da sola, dorme, si sveglia, va incontro alla senescenza... che ne so io della sua vita? Li chiamiamo 'vegetali' ma non sappiamo assolutamente nulla di queste persone. Il mio terrore è che Eluana senta ciò che si dice intorno al suo letto... Molti pazienti usciti da anni di stato vegetativo ci hanno raccontato che sentivano tutto ma non potevano minimamente comunicare: da queste storie riconosciamo almeno la nostra attuale ignoranza.
C'è chi sostiene che Eluana è inguaribile, dunque è inutile curarla.
I due termini non sono sinonimi: molte malattie sono inguaribili, ad esempio il diabete, ma esistono i farmaci per curarle. Il cancro stesso a volte è inguaribile, ma è sempre curabile!
Un concetto fondamentale per definire il ruolo del medico, oggi spesso snaturato.
Esatto: il medico deve guarire qualche volta, curare spesso, confortare sempre. Se un paziente esce dal suo studio con la morte nel cuore, quel medico non ha fatto il suo lavoro.
O se la morte nel cuore ce l'ha un parente: in fondo è l'intera famiglia che si 'ammala', quando in casa c'è un caso grave come quello di Eluana.
Beppino Englaro ha la morte nel cuore, significa che accanto a sé ha qualche medico che non sa fare ciò che deve. Io, scienziata atea, se potessi, vorrei lasciargli solo un dubbio: che forse in sua figlia una minima attività c'è, che magari possa sognare mentre dorme. Come fa lui a saperne più di tutti i neuroscienziati? Vuole liberarla, dice, ma è sicuro? Nella totale mancanza di dati che ci dicano se il suo mondo è così brutto come sostiene o addirittura non esista neppure, accolga questo dubbio. E nel dubbio abbia la forza di accettare una vita seppure minima, che non soffre e non fa male a nessuno.
Fonte: Avvenire, 9 gennaio 2009
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