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« Torna agli articoli di Anna Bono
La Cina è uno dei G5, i cinque paesi – gli altri sono Brasile, India, Messico e Sudafrica – invitati al recente G8 di L’Aquila. Il 6 luglio il premier cinese Hu Jintao era già in Italia per alcuni incontri con le autorità italiane: conversazioni amichevoli, buoni propositi, complimenti reciproci e accordi economici per il valore di due miliardi di dollari. Poi il giorno dopo Hu Jintao è ripartito per Pechino, lasciando alla sua delegazione il compito di presenziare al summit.
Una simile decisione conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, la gravità di quanto sta succedendo in Cina. Tutto è incominciato nella notte tra il 5 e il 6 luglio a Urumqi, capitale dello Xinjiang, dove da 2 a 3 mila Uiguri si sono scontrati con un migliaio di agenti di polizia e poi, nel disperdersi, hanno distrutto e incendiato vetrine e automezzi. Gli scontri sono proseguiti nei giorni successivi, con un bilancio che parla di alcune centinaia di morti e migliaia di feriti.
Le autorità cinesi, che hanno provveduto all’arresto di oltre 1.500 persone, parlano di una rivolta violenta, un complotto ordito da gruppi di Uiguri in esilio, mentre i dimostranti sostengono che si trattasse di una pacifica manifestazione di protesta per la morte di due Uiguri uccisi nel sud della Cina nel corso di una serie di scontri tra operai Uiguri e Han (l'etnia maggioritaria cinese), e accusano le forze dell’ordine di aver aperto il fuoco sparando sulla folla indiscriminatamente.
Gli Uiguri, in prevalenza dediti all’agricoltura, sono un’etnia di fede islamica. Costituivano la maggioranza della popolazione dello Xinjiang finché Pechino, a causa dei giacimenti di petrolio e di gas naturale di cui la regione è ricca, vi ha favorito l’insediamento di milioni di Han (cinesi) che ora controllano l’economia, il commercio e i posti di potere nell’amministrazione locale. Gli Uiguri in rivolta protestano contro il governo centrale, rispetto al quale chiedono maggiore autonomia, e contro l’emarginazione e le discriminazioni subite da parte della popolazione immigrata Han. Si ribellano inoltre alle persecuzioni dei fedeli e alle limitazioni poste al culto. Nello Xinjiang è proibita l’educazione religiosa ai giovani di età inferiore a 18 anni, si distruggono moschee e scuole islamiche per “favorire lo sviluppo economico” e nelle scuole gli alunni sono obbligati dagli insegnanti a mangiare di giorno durante il mese del Ramadan, che l’Islam dedica al digiuno diurno.
Secondo il direttore di AsiaNews, Bernardo Cervellera, “l’emarginazione sociale e politica a cui sono sottoposti gli Uiguri nella loro terra è pari solo alla stessa emarginazione subita dai tibetani nel Qinghai e nel Tibet” e gli avvenimenti delle ultime ore ricalcano lo schema adottato in Tibet da Pechino lo scorso anno: “Anche nel marzo 2008, alla vigilia delle Olimpiadi, una manifestazione pacifica si è trasformata in uno scontro violento con l’esercito che ha fatto decine di morti, a cui sono seguiti migliaia di arresti e la legge marziale”.
Le altre comunità religiose cinesi non vivono giorni migliori: “Da almeno due anni – ha spiegato Cervellera in un lancio d’agenzia del 6 luglio – è in atto una campagna per eliminare tutte le comunità protestanti sotterranee e le cosiddette Chiese domestiche, distruggendo le chiese, arrestando i pastori, bastonando i fedeli, proibendo la diffusione di Bibbie”.
Quanto ai cattolici, i 70 vescovi ufficiali riconosciuti da Pechino sono sotto stretta sorveglianza per essersi riconciliati segretamente con il Papa. I circa 40 vescovi sotterranei, vale a dire non riconosciuti dalle autorità cinesi, sono tutti agli arresti domiciliari e alcuni di essi sono scomparsi da tempo. Monsignor Giacomo Su Zhimin, vescovo di Baoding, Hebei, è stato arrestato nel 1996 e di lui non si è più saputo nulla. L’ultimo di cui si sono perse le tracce è Monsignor Giulio Jia Zhiguo, scomparso il 30 marzo scorso.
Di recente, la crisi economica internazionale ha accentuato antagonismi e animosità: e non soltanto nello Xinjiang. Secondo quanto riferito dal Ministero cinese della sicurezza, ogni anno si verificano in Cina non meno di 87 mila rivolte, scatenate soprattutto da problemi sul lavoro e dalla disoccupazione, ma sempre più spesso connotate etnicamente.
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