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LA TOSCANA LIBERATA DAL VIVA MARIA: IL MOVIMENTO DI POPOLO CHE SEPPE OPPORSI EROICAMENTE ALL'INVASORE NAPOLEONICO
di Giuliano Mignini
 

UN FENOMENO DI RESISTENZA POPOLARE CONTRO-RIVOLUZIONARIA
Il termine "Viva Maria" indica tradizionalmente l’insorgenza tosco-umbra del 1799, che ha il suo epicentro ad Arezzo e che coinvolge anche i territori limitrofi del lago Trasimeno e dell’alta valle del Tevere, appartenenti allo Stato Pontificio, cioè la resistenza popolare all’esportazione manu militari della Rivoluzione francese del 1789 da parte delle truppe di Napoleone Bonaparte (1769-1821) verificatasi fra le odierne Toscana e Umbria. Come tutti i fenomeni contro-rivoluzionari, anche quello del Viva Maria è fenomeno prevalentemente popolare in difesa delle tradizioni religiose e culturali, nonché del patrimonio, pure materiale, delle comunità locali. Contro le armate francesi e le milizie "italiche", portatrici di un messaggio ideologico astratto e confliggente con l’identità storica e religiosa delle mille piccole patrie italiane, le popolazioni della penisola, mosse da un forte senso di appartenenza e di radicamento territoriale, reagiscono con le modalità proprie delle insurrezioni e mostrano, in modo inequivocabile, la loro avversione alla Rivoluzione sia nella realizzata versione francese che in quella potenziale italiana.
Le armate francesi, penetrate in Italia nella primavera del 1796, con l’apporto dei giacobini locali tentano dovunque, in modo brutale e senza mediazioni di sorta, di laicizzare le istituzioni e di sovvertire alla radice le tradizionali forme di espressione della sovranità e della rappresentanza politica, distruggendo e criminalizzando le plurisecolari entità statuali esistenti, e imponendo nuovi modelli culturali e politici. Il popolo si solleverà quasi subito, sia perché è torchiato dalle imposizioni e dalle ruberie dell’occupante, sia perché percepisce l’estraneità ideologica dei francesi, visti non tanto come stranieri quanto come portatori di una visione del mondo ostile al "senso comune" che ancora sopravvive nelle società dell’Antico Regime.
LE ORIGINI
Le popolazioni toscane erano già insorte contro la politica liberistica e filogiansenista del granduca Pietro Leopoldo di Asburgo-Lorena (1747-1792), il futuro Leopoldo II imperatore del Sacro Romano Impero, culminata nella convocazione del Sinodo di Pistoia, nel settembre del 1786; e proprio ad Arezzo, nel 1795, si verificano violenti tumulti, anche con implicazioni religiose. Il miracolo del 15 febbraio 1796, quando un’annerita immagine della Madonna del Conforto sbianca dinanzi agli occhi di alcuni artigiani, è il primo di una serie di episodi analoghi verificatisi in molte altre parti del Granducato e nei territori limitrofi, dove sono viste statue o immagini della Madonna muovere gli occhi o piangere. La devozione mariana, già forte in Toscana e nell’Umbria Occidentale, è rafforzata da questi miracoli e costituisce il motore della futura sollevazione.
Il Granducato, in un primo tempo, è risparmiato dai rivoluzionari francesi, salvo la città di Livorno, occupata nel giugno del 1796, mentre i contigui territori perugino e altotiberino, appartenenti allo Stato Pontificio, sono invasi dalle truppe rivoluzionarie nel febbraio del 1798 e sono assegnati al nuovo Dipartimento del Trasimeno. La linea direttrice dell’invasione è, infatti, quella dei possedimenti pontifici, dove i reparti francesi del generale Pierre-François-Charles Augereau (1757-1816) penetrano nel giugno del 1796, provocando la violenta insurrezione delle popolazioni nella Legazione di Ferrara, l’attuale Romagna, culminata nella rivolta e nel sacco di Lugo.
Due mesi dopo si sollevano anche i centri dell’alta valle del Tevere e, il 16 aprile, gli insorti, a cui s’uniscono elementi provenienti dal Granducato, entrano a Città di Castello al grido di "Viva Maria!" e abbattono l’albero della libertà, il simbolo eretto ovunque dai rivoluzionari. Dopo alterne vicende gl’insorgenti entrano di nuovo in città il 5 maggio, ammazzando circa centocinquanta soldati e ufficiali francesi. Quasi contemporaneamente, il 22 aprile, si ribella l’altro epicentro della rivolta, Castel Rigone, nei dintorni del lago Trasimeno, e gl’insorgenti, organizzati da un popolano, il "generalissimo" Tommaso, detto il Broncolo, giungono ad assediare la stessa Perugia. Le truppe francesi riprendono il controllo della situazione nel corso del mese di maggio a prezzo di saccheggi e di massacri, e nonostante la strenua resistenza degl’insorti, che, poco armati e mal equipaggiati, iniziano una sorta di guerriglia, riparando poi nei vicini territori aretini.
Quando, il 25 marzo 1799, i francesi entrano a Firenze, costringendo all’esilio il granduca Ferdinando III (1769-1824), reo di aver dato ospitalità a Papa Pio VI (1775-1799) e a Carlo Emanuele IV di Savoia (1751-1819), re di Sardegna, anche la Toscana subisce l’imposizione del regime repubblicano, con la sua triste sequela di confische, di requisizioni, di contributi e di vessazioni contro il clero e contro i fedeli. Fin dai primi giorni dell’occupazione, a Firenze e in altri centri scoppiano tumulti, presto sedati con violenza dagli occupanti.
L’INSORGENZA E IL SUO SVILUPPO
Il 6 aprile 1799 esigue forze francesi occupano Arezzo, località molto vicina ai centri del Perugino e dell’alta valle del Tevere, caratterizzati da una particolare fedeltà alla dinastia e da un forte sentimento religioso, già coinvolti nell’insurrezione del 1798. Un mese dopo, la mattina del 6 maggio, scoppia la rivolta. Mentre le campane delle chiese suonano a stormo, gli aretini e gli abitanti del contado, armati con roncole e fucili, abbattono l’albero della libertà, piantato presso la caserma delle guardie nazionali, e s’impadroniscono della città, al grido di battaglia degli insorti del 1798, "Viva Maria!". Viene quindi costituita una Suprema Deputazione, composta da personalità cittadine, fra cui spicca il barone Carlo Albergotti Siri (?-1832), mentre il comando militare è affidato al cavalier Angiolo Guillichini vecchio ufficiale della marina toscana, e al marchese Giovan Battista Albergotti (1761-1816), cavaliere dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme. Pertanto, mentre la prima fase dell’insorgenza era stata caratterizzata dallo spontaneismo e dal ricorso a guide popolari, talora provenienti dalle file del banditismo, la fase successiva vede la partecipazione di elementi di spicco del clero e della nobiltà locali in funzione di guida, e l’alleanza con le truppe austriache.
I francesi trascurano inizialmente l’episodio perché la difficile situazione nell’Italia Settentrionale richiede un intervento immediato. Così Arezzo è lasciata libera e l’insurrezione può espandersi grazie anche all’appoggio degli austro-russi, che inviano l’alfiere Karl Schneider von Arno (1777-1846) ad assumere il comando degl’insorti. In giugno si sollevano le comunità della Valdichiana, del Valdarno e del Casentino, che si pongono alle dipendenze della Suprema Deputazione di Arezzo, la quale assume di fatto la veste di governo provvisorio della Toscana nel nome di Ferdinando III. Le truppe della coalizione, forte di almeno trentamila uomini, penetrano nel Senese e, attraverso l’alta valle del Tevere, nel territorio pontificio, fino a Città di Castello. La vittoria ottenuta presso il fiume Trebbia, fra il 15 e il 17 giugno, dalle truppe austro-russe del generale principe Aleksandr Vasilevic Suvarov (1729-1800) nei confronti di Jacques-Étienne-Joseph-Alexandre Macdonald (1765-1840), comandante dell’Armée de Naples, accresce ulteriormente le fortune degli aretini, a cui si unisce il cavalier William Frederic Wyndham (1763-1828), diplomatico inglese presso la Corte granducale. Il 28 giugno, le truppe aretine attaccano Siena, accolte con entusiasmo dai popolani, ma, penetrate nel ghetto, ammazzano tredici componenti della comunità israelitica, mostratasi favorevole ai francesi, finché sono fermate da alcuni esponenti del patriziato locale.
Nel pomeriggio del 7 luglio circa tremila insorti, guidati da Wyndham e Lorenzo Mari, vecchio ufficiale dei dragoni di Toscana divenuto comandante degl’insorgenti di Montevarchi, fanno il loro ingresso in Firenze, preceduti da un frate zoccolante con una grande croce. A essi si aggiungono altri reparti aretini provenienti da Pontassieve e alcuni squadroni di cavalleria austro-russa. Gli austriaci, intervenuti in forze il giorno 20, assumono progressivamente il controllo dei centri occupati dagl’insorti, con i quali nascono presto non pochi attriti. Fra i personaggi fiorentini subito tradotti in carcere dai contro-rivoluzionari vi è pure mons. Scipione de’ Ricci (1741-1810), vescovo di Pistoia e di Prato, il maggior esponente del giansenismo italiano.
Anche nella Toscana Occidentale i francesi e i giacobini locali vengono ovunque battuti. Il 17 luglio le truppe rivoluzionarie sgombrano Livorno, mentre in Maremma i contingenti di Volterra, guidati dai fratelli Curzio e Marcello Inghirami, cacciano i francesi e risollevano le insegne granducali. Dopo alcuni giorni di assedio, gli aretini, insieme a reparti dell’area del Trasimeno e dell’alta valle del Tevere, entrano a Perugia nella notte fra il 3 e il 4 agosto, e il 31 si arrende anche l’ultimo baluardo giacobino in città, cioè la Rocca Paolina. Arezzo, in quanto centro militare ed economico dell’insorgenza, diventa la capitale effettiva del Granducato e la Suprema Deputazione continua a governare il paese anche dopo che il sovrano ha affidato in sua assenza il governo della Toscana al Senato fiorentino dei Quarantotto. Nella conflittualità insorta con il Senato, titolare del potere legale, la Deputazione ha, in un primo momento, la meglio, mantenendo il controllo del territorio e riorganizzando le proprie bande e quelle delle città alleate in un’"armata austro-aretina", che insegue l’esercito francese nello Stato Pontificio, dove libera Todi, Assisi, Foligno, Spoleto e Orvieto, giungendo fino alle porte di Roma. L’inevitabile esaurimento dell’azione militare, a seguito della ritirata generale dei francesi dall’Italia Centrale, finisce per togliere alla Deputazione le ragioni della sua forza, consentendo al Senato fiorentino di procedere allo scioglimento prima dell’armata e poi della stessa Deputazione.
Dietro il governo granducale, l’Austria assume il controllo della Toscana, reprimendo duramente tutte le attività giacobine, ma anche emarginando progressivamente gl’insorgenti.
IL TRISTE, MA GLORIOSO EPILOGO
Un motu proprio sovrano del 16 febbraio 1800 riconosce i meriti degli aretini e concede loro numerosi benefici, ma, quando i francesi tornano in forze in Italia nel maggio del 1800, dopo la vittoria napoleonica di Marengo, in Lombardia, la difesa del Granducato è affidata all’inetto generale Annibale Sommariva (1755-1829), che presiede la reggenza nominata dal granduca e che fugge ingloriosamente prima da Firenze e poi da Arezzo.
La resistenza tentata dal marchese Albergotti, il 17 ottobre, in un contesto profondamente mutato rispetto a quello dell’anno precedente, risulta vana e i francesi si vendicano di Arezzo, rimasta sola. Gl’insorgenti aretini scrivono le pagine più belle dell’epopea del Viva Maria, combattendo eroicamente contro l’invasore, a cui vengono inflitte notevoli perdite. Il giorno dopo, spezzate le ultime resistenze, i francesi compiono uno sfrenato saccheggio, che prosegue nei giorni successivi. Bande d’insorti, trasformatisi in guerriglieri, continuano ancora a operare nell’Italia Centrale, ma ormai l’insorgenza si è esaurita.

 
Fonte: Dizionario del Pensiero Forte