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A quarantacinque anni dalla morte, la figura-simbolo dell'insurrezione anticomunista ungherese del 1956, il cardinale Jozsef Mindszenty, Primate d'Ungheria, può ancora oggi insegnare qualcosa.
Nato nel 1892, aveva in realtà un cognome tedesco, Pehm. Figlio di un coltivatore diretto, fu sacerdote nel 1915 e professore nel liceo di Zalaegereszeg. Al crollo dell'impero asburgico nel 1918 venne arrestato dal governo rivoluzionario di Károly e poi espulso da quello successivo, comunista, di Béla Kun. Caduto questo, poté rientrare. Si oppose fin da subito all'alleanza con la Germania nazista, fino al punto di cambiare il suo cognome con il luogo di nascita, Csehimindszent. Nel 1944 i tedeschi occuparono l'Ungheria e Mindszenty divenne vescovo di Veszprém; in tale veste salvò moltissimi ebrei. Alla fine dell'anno i sovietici entrarono nel Paese saccheggiando e stuprando (il vescovo di Györ, Apor, venne assassinato mentre cercava di difendere le donne rifugiatesi nel suo palazzo).
Mindszenty protestò col governo e fu incarcerato. Poté uscire quando i secondini fuggirono davanti ai sovietici. Nel 1945 i comunisti presero il potere ed espulsero il nunzio apostolico. Lo stesso anno morì il Primate e il papa Pio XII nominò Mindszenty al suo posto, quantunque fosse il più giovane dei vescovi ungheresi. Le carceri e i campi di concentramento si riempirono di dissidenti, i comunisti bloccarono i soccorsi americani alla popolazione affamata, le scuole cattoliche furono nazionalizzate, la censura calò sulla stampa.
Il cardinale, in risposta, guidò un pellegrinaggio di centomila persone al santuario di Máriaremete e nel 1947 indisse un Anno Mariano ai cui riti parteciparono in cinque milioni. I comunisti cominciarono a disturbare le sue Messe e a calunniarlo a mezzo stampa. Nel frattempo, creavano il gruppo collaborazionista dei «Sacerdoti per la pace». Nel 1948 per intimidire il cardinale arrestarono il suo segretario, Zakar, riducendolo alla demenza a forza di torture. Poi presero anche Mindszenty e lo chiusero nel palazzo che a suo tempo era stato sede della Gestapo. Qui lo denudarono e vestirono da pagliaccio, poi lo pestarono coi manganelli. Ogni notte lo svegliavano e cercavano di fargli firmare una confessione; se rifiutava, giù botte. Così per un mese e mezzo. Alla fine, fisicamente e mentalmente distrutto, firmò una falsa confessione (ma aggiunse accanto «c.f.», cioè «coactus feci», lo faccio costretto).
Al processo-farsa del 1949 fu dato il massimo clamore. Per non farne un martire gli diedero l'ergastolo. Quando la vecchia madre vide che aveva perso metà del suo peso, protestò, ma ne ottenne solo il trasferimento in un carcere più duro. Otto anni così, fino all'insurrezione del 1956. In quell'occasione il governo gli chiese di adoperarsi per far rientrare la protesta ma lui rifiutò. I soldati insorti lo liberarono e lo riportarono in trionfo a Budapest. Trovò che nel clero tutti i posti-chiave erano stati occupati da «sacerdoti per la pace». Il premier supplente, Tildy, gli chiese di mediare e lui suggerì di non fidarsi dei comunisti ma di rivolgersi all'Onu.
Il 3 novembre il cardinale parlò alla radio agli ungheresi ma a mezzanotte l'Armata Rossa invase il Paese. Seguì la repressione, che fece trentamila vittime e centinaia di migliaia di profughi. Mindszenty si rifugiò nell'ambasciata americana, dove il presidente Eisenhower gli offrì asilo politico. Non poté più uscirne, nemmeno per il funerale di sua madre: la polizia segreta stazionava in permanenza davanti all'ambasciata. Nel 1958 morì Pio XII. Il nuovo papa, Giovanni XXIII, aprì trattative che furono concluse da Paolo VI. L'ostpolitik vaticana si accontentava di riempire le diocesi vacanti con «sacerdoti per la pace» (suppergiù come oggi con la Cina).
Ma alla «distensione» ostava l'irriducibile cardinale che esigeva una pubblica riabilitazione. Nel 1971 fu «graziato» e poté raggiungere Roma, dove il papa gli chiese di dimettersi da Primate. Ci mise tre anni per capitolare, poi accettò di farsi da parte e prese a viaggiare per assistere gli ungheresi della diaspora. Morì a Vienna nel 1975 e fu sepolto nel santuario austriaco di Mariazell, la cui icona è anche patrona d'Ungheria. Le sue spoglie tornarono in patria solo nel 1991. Fu nell'interpretarne la figura, nel 1955, che Alec Guinness si convertì al cattolicesimo. Il film, "Il prigioniero", venne rifiutato a Cannes e a Venezia.
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Pubblicato 10 anni fa...
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