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« Torna agli articoli di Lucia Capuzzi
Noi oppositori torturati e uccisi. Marina aveva 16 anni nel 1982 quando venne rinchiusa a Evin per aver criticato il regime. Cristiana, fu costretta a convertirsi all’islam
« Sono stati i miei aguzzini a dirmi che ero stata condannata a morte, mentre mi frustavano sulle piante dei piedi. Non avevo neppure idea che ci fosse stato il processo». Marina Nemat è stata una delle migliaia di adolescenti iraniane rinchiusa nel carcere di Evin durante la “rivoluzione culturale islamica”, inaugurata da Khomeini. Nel 1982, a 16 anni, Marina è stata arrestata per aver criticato, sul giornale della scuola, l’opera di indottrinamento svolta dai suoi insegnanti. «Invece di studiare storia, geografia, letteratura, eravamo costretti ad ascoltare per ore la propaganda governativa. Per me, cristiana ed educata dai miei genitori al rispetto della libertà, era intollerabile».
Ventisei anni dopo a Teheran lo scenario resta, per molti aspetti, immutato. Il dissenso viene represso, le esecuzioni sono quotidiane. Come dimostra la condanna alla lapidazione per «un’adultera» emessa dalla Corte suprema. O l’agghiacciante decisione di accecare un ragazzo di 27 anni colpevole di aver sfregiato e fatto perdere la vista alla moglie.
Signora Nemat, perché dopo l’era riformatrice di Khatami, il regime è tornato alla politica del pugno di ferro?
Il governo degli ayatollah alterna fasi di feroce repressione a momenti di distensione. Ma si tratta di aperture fittizie. Khatami ha concesso alle donne di scoprire un po’ di più i capelli. Non ci sono stati, però, cambiamenti sostanziali. Né si potranno avere finché tutto il potere sarà nelle mani di un solo uomo. Che non è di certo Ahmadinejad.
Chi detiene allora la vera autorità nel Paese?
L’ayatollah Khamenei, che ha sostituito Khomeini. Lui controlla la società e le massime cariche dello Stato, incluso il presidente. Ogni forma di opposizione viene stroncata. Ora, come negli anni Ottanta, le carceri sono stracolme di prigionieri politici che vengono spesso torturati e in alcuni casi uccisi.
Com’è riuscita a evitare il patibolo?
Uno dei miei carcerieri – Alì – mi ha fatto commutare la sentenza in ergastolo. In cambio, mi ha obbligato a sposarlo e a convertirmi all’islam. In realtà, mi considerava una schiava. Dopo le nozze sono rimasta nell’inferno di Evin. Dormivamo in 70 in una cella. Per andare in bagno dovevamo camminare sui corpi tumefatti dalle torture degli altri prigionieri. Quando sono stata rilasciata – dopo due anni, due mesi e 12 giorni – Alì era stato assassinato. Così, sfidando il regime, ho sposato in Chiesa Andre, il mio vecchio amore. Un reato – per gli ayatollah restavo musulmana – punibile con la morte. Ho vissuto nella paura fino al 1990, quando siamo fuggiti in Canada.
Crede che il programma nucleare del presidente Ahmadinejad rappresenti una minaccia concreta per l’Occidente?
Ahmadinejad è uno “showman”. Interpreta la parte del duro – e la minaccia nucleare è parte di questa strategia – per dimostrare agli iraniani e al mondo che ha il potere. Mentre è Khamanei, che resta nell’ombra, a decidere. Non credo che ci sia un rischio atomico reale. È solo propaganda.
Dopo la vittoria in America di Obama i rapporti tra Usa e Iran potranno cambiare?
Lo spero. Gli errori di Bush hanno favorito il regime iraniano. Gli Usa hanno eliminato Saddam, il peggior nemico di Teheran, che ora spera di veder nascere una repubblica sciita in Iraq. L’interventismo americano ha, inoltre, rafforzato i conservatori. Perché la gente, vedendosi minacciata dall’esterno, si è stretta intorno al governo. La democrazia non si importa, si costruisce col tempo.
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