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« Torna agli articoli di Mario Palmaro

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è intervenuto sul caso-Battisti, spiegando che «alla nostra politica e alla nostra cultura è mancato qualcosa per trasmettere, e far capire davvero, il senso di ciò che accadde in quegli anni tormentosi del terrorismo». Secondo Napolitano «anche a paesi amici non siamo riusciti a far comprendere la gravità del terrorismo». Il Capo dello Stato ha sollevato due questioni interessanti. Cominciamo dalla prima, la più corposa: ai giovani – sostiene il Presidente – non è stata raccontata la stagione del terrorismo.
Le parole di Giorgio Napolitano dicono bene, ma non dicono tutto. Non ci dicono perché, in Italia, gli anni di piombo sono avvolti da un velo di ignoranza. La ragione è molto semplice, ma anche molto imbarazzante: una parte importante della cultura e della politica contemporanea ha scheletri negli armadi che risalgono proprio a quel periodo. Stiamo parlando soprattutto di quella parte politica che, con sfumature diverse, negli anni del terrorismo era "di sinistra". Che tale ancora si definisca, o che si qualifichi come "democratica" e "progressista", poco importa: in entrambe i casi, essa ha le sue radici inequivocabilmente in quel territorio della politica che trent'anni fa amava Marx, Lenin, Mao Tse Tung, Chou En Lai e Pol Pot.
I sessantottini furono i turbolenti nipotini di quella generazione di comunisti che li aveva preceduti e generati, e che aveva lo stomaco abbastanza robusto per digerirsi un carro armato sovietico, fosse quello a Budapest 1956, o a Praga 1968. Quella classe dirigente, organica al vecchio Pci, non palpitava per il tricolore ma per l'Internazionale socialista, e non pareva assillata dalla preoccupazione per l'unità nazionale e l'amor di patria. Se i nostri giovani non sanno nulla del terrorismo, è perché ancora oggi il nostro Paese è largamente popolato da dirigenti politici, intellettuali, giornalisti, direttori di giornali e di telegiornali, storici e filosofi, attori e registi che negli anni Settanta marciavano compatti nelle piazze avvolti nella falce e martello. E già che c'erano, inneggiavano alla Cina, all'Unione Sovietica, alla Cambogia dei Khmer rossi, al Vietnam comunista, al Patto di Varsavia.
In alcuni casi, la saldatura di questo coté culturale con il terrorismo e con la violenza ha avuto i contorni di una vera e propria correità penale. Colpe talvolta accertate dalla giustizia ordinaria, più spesso occultate sotto il tappeto della nuova borghesia radical chic pervenuta al potere: meglio non far sapere ai ragazzi del terzo millennio che il parlamentare in grisaglie lanciava le molotov, okkupava l'aula magna e sprangava i "nemici".
Più spesso, però, la connivenza è stata di carattere morale: niente azioni da codice penale, ma parole più velenose del piombo, secondo un cliché ben ricostruito da Michele Brambilla nel suo L'eskimo in redazione. Le Brigate Rosse venivano definite dai quotidiani degli Anni Settanta "sedicenti", perché secondo la cultura marxista egemone la violenza non poteva che essere "di destra e fascista". Erano anni, quelli che secondo Napolitano dovremmo conoscere meglio, in cui si sottoscrivevano manifesti per definire il commissario Calabresi un "torturatore", accusandolo della morte di Pinelli. E basta rileggersi il lunghissimo elenco dei firmatari di quel vergognoso atto di condanna civile – da tribunale del popolo della Cina comunista – per rendersi conto del perché gli anni del terrorismo rimangano tabù per i nostri giovani.
La seconda tesi di Napolitano è che non avremmo spiegato a sufficienza la "gravità del terrorismo" al Brasile. Difficile capire il senso di queste parole: Battisti è inseguito dalla nostra giustizia non per "sistemare i conti" con il terrorismo, ma semplicemente per eseguire delle condanne penali per omicidio. Se Napolitano intende dire che la vicenda di Battisti ha anche implicazioni politiche, allora siamo d'accordo. Ma torniamo punto e a capo: siamo ostaggi di un pregiudizio ideologico di origine marxista, e bastano poche righe per dimostrarlo.
Cesare Battisti militava infatti nei PAC, i Proletari Armati per il Comunismo. Si sa che la violenza, esercitata da quella parte, è un po' meno violenza. Intendiamoci: oggi ogni "sincero democratico" prende le distanze dagli anni di piombo e dal terrorismo rosso. Però lo fa senza scaldarsi troppo. Tanto è vero che, se per ipotesi, Battisti fosse stato un terrorista "nero" apriti cielo: manifestazioni, sit-in, scioperi della fame, raccolte di firme, fiaccolate di preghiera, trasmissioni monografiche sulla Rai si sarebbero susseguiti in un irresistibile crescendo, per documentare lo sdegno delle mai dome forze democratiche e antifasciste. Le stesse che non vogliono saperne di guardare dentro agli anni di piombo. Per paura di vedersi, come in uno specchio.
Senza scordare che Battisti stava in Francia. Che in Francia ci sono stati molti par suoi, terroristi rossi, accolti come rifugiati politici, coccolati e vezzeggiati, talora messi persino in cattedra, comunque sempre salvaguardati nella loro libertà eversiva di opinione di condurre la lotta armata. E che in Francia lo hanno lasciato riparare in Brasile.
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