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« Torna agli articoli di Mario Palmaro

Berlusconi è in coma, le opposizioni non hanno la forza di staccargli la spina e di prenderne il posto, vecchi dinosauri democristiani ordiscono le solite trame per dare vita a un governo istituzionale di larghe intese, ovviamente "per il bene comune". Di fronte a questo spettacolo un po' squallido, l'uomo della strada che fa? Ridacchia. Perché quando la politica entra in crisi acuta, come in queste ore, nell'Italiano Medio scatta un sottile, inconfessabile compiacimento. Inguaribili individualisti, siamo infatti convinti che la politica sia un incidente, un peso morto, un guaio che appesantisce il nostro passo, un enorme parassita che succhia energia vitale al nostro lavoro quotidiano. Come darci torto? Se pensiamo tutto questo, vuol dire che la politica ce ne ha fornito i motivi e le prove in quantità industriale.
Faremmo bene però ad accorgerci che sotto i nostri occhi sta accadendo qualche cosa di nuovo, anzi d'antico: e cioè che questa volta la politica non è semplicemente in crisi, ma rischia di scomparire. Definitivamente. Per essere rimpiazzata da qualche cosa che potrebbe essere molto peggio.
Tutti presi dalla foga di sostenere la fazione che ci piace, o quella che ci dispiace di meno, noi italiani rischiamo di non vedere la cosa più importante: e cioè che è in atto un "golpe" incruento che rischia di assestare alla sovranità nazionale del Bel Paese un colpo mortale. Qui non è più questione di Berlusconi o di Bersani, di Casini o di Prodi. Il punto è un altro: e cioè che organismi privi di qualunque rappresentatività democratica come il Fondo Monetario Internazionale, come la Banca Centrale Europea, come l'Unione Europea, dettano ai singoli Paesi del Vecchio continente ciò che si deve o non si deve fare.
Non vogliamo nemmeno sfiorare il merito dei provvedimenti che in questo frangente ci sono stati imposti: può darsi che siano indispensabili e perfino utili al bene comune. Non ha importanza. Il nodo è un altro: e cioè che, una volta imboccata questa strada, la politica nazionale è morta. E al suo posto si avanza una cosa difficile da definire, che ha però un nome preciso: tecnocrazia.
E' incredibile l'indifferenza che in queste ore avvolge una simile svolta epocale. E fa tristezza che a questo conformismo deferente si unisca in buona parte lo stesso mondo cattolico, che dovrebbe avere in sommo discredito ogni ipotesi di governo tecnocratico, magari pure "mondiale".
Per decenni siamo stati seppelliti sotto tonnellate di retorica democratica, e abbiamo commesso l'errore di pensare che la democrazia fosse non solo un sistema di governo, ma un vero e proprio valore morale assoluto intrinseco, coincidente con l'apogeo della storia delle dottrine politiche. Il processo rivoluzionario cominciato con la Rivoluzione francese ha lavorato alacremente per diffondere il sistema democratico nel mondo, dileggiando tutte le forme di governo che lo hanno preceduto. Il suggestivo rapporto di equilibri creato dal sistema Impero-Chiesa-Comuni di epoca medievale; le monarchie di diritto divino; il grande Impero centrale asburgico: tutta roba vecchia e cattiva, rimpiazzata finalmente dal vento fresco e pulito della democrazia. La quale, gettata la maschera, si è confermata per quello che è: e cioè il peggior sistema di governo a parte tutti gli altri, come ebbe a dire una volta Winston Churchill.
Bene: dopo averci detto che senza democrazia non si può vivere, ecco che improvvisamente, con la nascita di una moneta unica europea, i governi nazionali vengono ridotti all'impotenza a uno a uno. Ecco che si materializza la profezia elaborata da Francesco Gentile, uno dei più originali filosofi del diritto contemporanei, morto nel novembre del 2009: la dottrina della "politica come inconveniente". Di che cosa si tratta?
La politica, pur con tutti i suoi orribili difetti, rappresenta il tentativo di discutere i problemi della polis e di trovare delle soluzioni per il bene della comunità. Perfino le tanto vituperate ideologie del '900 e i partiti che ne sono il prodotto rappresentano la forma storica di questa idea sostanzialmente umana di gestione della cosa pubblica. Che il sistema sia democratico o meno, il politico è comunque costretto dai fatti a confrontarsi con il popolo e a rendere conto al popolo: tanto è vero che nemmeno un dittatore può permettersi il lusso di governare a lungo senza consenso.
Ma la tecnocrazia è un'altra cosa: è potere esercitato da "esperti" e da elite non rappresentative, che decidono in modo totalmente autonomo rispetto al mondo reale degli uomini. Il passaggio dalla politica alla tecnocrazia è purtroppo, secondo Gentile, un esito scritto nella tragedia delle ideologie moderne – marxismo e liberalismo – nient'affatto opposte fra loro, ma complementari e progressive, essendo entrambe rivoluzionarie. Alla fine, lo sbocco è quello di consegnare il governo nelle mani di chi detiene il potere finanziario, di chi maneggia le leve dell'economia globalizzata. Ecco che la politica diventa un inconveniente, cioè un ostacolo da togliere di mezzo perché disturba il manovratore, agitando totem anacronistici come l'interesse nazionale, il bene comune, la volontà del popolo. E magari – perché no? – i principi non negoziabili.
Sembra molto difficile non scorgere, in quello che sta accadendo alla Spagna, alla Grecia, e ora all'Italia, il sigillo di questa operazione di "sgombero" della politica nazionale, a favore dei poteri finanziari. Forse la sciagura si sarebbe potuta evitare non accettando la trappola mortale dell'Euro, e tenendoci stretta la facoltà di battere la nostra cara vecchia Lira, come strumento di compensazione agli squilibri della finanza internazionale. Ora il nuovo Presidente del Consiglio italiano, qualunque sarà il Premier dopo Berlusconi, sarà costretto a presentarsi in Europa come un peone messicano dei vecchi film hollywoodiani: pigiama bianco, sombrero in mano e sguardo basso.
In uno scenario del genere, c'è da chiedersi se abbia ancora senso organizzare una campagna elettorale, litigare nelle piazze e nelle tribune politiche, e andare a votare. Non più a Roma, ma altrove, si decidono le sorti del nostro Paese.
Siamo già in una tecnocrazia? Difficile dirlo. Certo è che il modo più sicuro per imboccare quella strada sarebbe il famoso "governo tecnico". Magari fra mille scodinzolii e sguardi di compiaciuta deferenza di fronte all'esperto di economia "super partes", al tecnico apprezzato ad Harward; insomma, all'uomo della Provvidenza. Pardon: della Previdenza.
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