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« Torna agli articoli di Rino Cammilleri

Il 13 giugno l'arcidiocesi di Genova ha dato l'annuncio dell'apertura del processo di beatificazione del concittadino Aldo Gastaldi (1921-1945), passato alla storia nazionale come il «primo partigiano d'Italia». Col nome di battaglia di «Bisagno» (tutti gli uomini al suo comando avevano scelto di chiamarsi come i fiumi della Liguria) aveva combattuto i tedeschi fin dall'inizio, cioè il giorno dopo l'8 settembre. L'iniziativa è stata salutata con favore dall'Anpi ligure per bocca del suo coordinatore: «Mi pare un segnale molto importante da parte della Curia soprattutto in un momento storico in cui c'è qualcuno che mette in discussione i valori fondamentali della nostra democrazia».
Ma davvero Bagnasco ha voluto fare un gesto polemico nei confronti dei leghisti al momento trionfanti? Figurarsi, si scherza coi fanti ma si lasciano stare i santi. E Bisagno forse era proprio santo, per questo il cardinale vuole che si vada a scrutarne la vita. Basta dire che il nostro candidato agli altari, quando decise di andare in montagna, la prima cosa che fece fu associarsi un prete, don Attilio Fontana, il quale diventò cappellano della prima formazione armata della Resistenza, la Divisione Cichero comandata da Bisagno. Il quale finì col diventare un mito per la sua imbattibilità su tutto l'Appennino ligure-emiliano. Un esperto di questa storia è Luciano Garibaldi, giornalista e storico, che ha scritto il libro I Giusti del 25 aprile. Chi uccise i partigiani eroi (Ares).
Ci informa che Bisagno proibiva ogni molestia alle donne, imponeva il pagamento di ogni rifornimento alimentare richiesto (si badi: non requisito) ai contadini, vietava il turpiloquio e soprattutto le bestemmie: «La bestemmia è, per chi crede, una abiezione e, per chi non crede, una stupida inutilità. In ogni caso è simbolo di pervertimento», lasciò scritto nelle sue direttive. Per se stesso: «Il capo mangia sempre per ultimo, sceglie per ultimo la sua parte, beve per ultimo alla fonte o alla bottiglia, fa di notte il turno più pesante». Bisagno era religiosissimo e solo ventenne così scriveva alla madre: «Credo e penso che tutti coloro che vedono ogni bellezza della vita nel solo piacere materiale siano dei deboli».
Vedeva, sì, la gioventù di quelli che si tenevano «lontani da Dio», ma non lui, tutt'altro. Per esempio, il giorno di Natale del 1944 ruppe il ghiaccio di una fontana gelata e si lavò, incurante del freddo, fino alla vita perché voleva andare a messa. Ma era un fustaccio, alto, bello e atletico, nonché un fegataccio da imprese eroiche. Arruolato nel Genio come soldato semplice, salì tutti i gradi per merito fino a sottotenente.
Anziché cedere ai tedeschi gli armamenti di cui era responsabile, convinse i suoi uomini a portarli in montagna. Alla sua Divisione affluirono ben presto i soldati inglesi e australiani fuggiti dalla prigionia, nonché molti di quei soldati italiani che intendevano continuare a combattere in nome del Re. I problemi per Bisagno vennero dal Cln. Non sopportava quei gruppi che operavano per politicizzare la Resistenza, specialmente i comunisti.
Il recentemente scomparso Zeffirelli, che fu partigiano bianco, raccontò di aver visto un prete ucciso e poi gettato in una latrina solo perché aveva benedetto le salme di alcuni fascisti. Bisagno vide per molte mattine le vie di Genova sparse qua e là di cadaveri di fascisti o stimati tali finiti col classico colpo alla nuca ed ebbe per questo una tempestosa discussione col Comitato nella sede genovese all'Hotel Bristol.
Ora, alla sua Divisione si erano uniti parecchi repubblichini di leva, cioè giovani praticamente costretti. A guerra finita, tornati alle loro case, però, dato il clima chi avrebbe creduto alla loro partecipazione alla lotta partigiana? Bisagno decise di accompagnarli personalmente per testimoniare a loro favore. Al ritorno da uno di questi viaggi cadde dal tettuccio del camion su cui stava seduto e finì sotto le ruote. Era il 21 maggio 1945, così morì il «primo partigiano d'Italia», a ventitré anni.
Luciano Garibaldi nel suo libro avanza dei dubbi su questa morte: perché non fu portato subito al più vicino ospedale ma in uno ben più distante? Perché non fu fatta l'autopsia? Così ha scritto (su «Il Timone»): «Sessant'anno dopo, il suo cugino e compagno di battaglie Dino Lunetti, in una intervista concessa a Riccardo Caniato e pubblicata nel libro I Giusti del 25 Aprile, ha demolito tale versione fornendone una molto più verosimile: avvelenato fino a fargli perdere i sensi e farlo precipitare». E se le indagini per la beatificazione si imbattessero in qualcosa di imbarazzante, ci sarebbe il coraggio di parlare di martirio in odium fidei? Si consideri che il cardinale croato e beato Stepinac, la cui morte in terra comunista rimane del pari avvolta nei dubbi, costituisce ancora un grattacapo per la Santa Sede.
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