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CHIESA E STATO: DIVISIONE O ARMONIA DEI RUOLI E DELLE RESPONSABILITA'?
di Roberto De Mattei
 

Negli ultimi tempi, sia in Europa che negli Stati Uniti, si è accesa una viva e talvolta aspra discussione sui rapporti tra la sfera politica e quella religiosa e morale, soprattutto per quanto riguarda il problema della vita umana, dal momento del concepimento fino alla morte naturale.
In Italia, negli ultimi mesi, il dibattito si è concentrato sulla pillola abortiva RU486 e sul cosiddetto testamento biologico, rivelando profonde spaccature all’interno di un mondo politico che, al di fuori dei temi etici, appare sempre più appiattito e omologato.
Al centro delle polemiche sono spesso i vescovi, i quali quando intervengono su temi politici che abbiano una dimensione etica, vengono accusati di indebita ingerenza nelle cose dello Stato. Gli stessi critici dell’interferenza ecclesiastica chiedono poi ai partiti politici di non prendere posizione sui temi divisivi di natura etica, lasciando ai propri rappresentanti in Parlamento piena libertà di coscienza. Nell’uno come nell’altro caso – si sente ripetere – i problemi morali non vanno proiettati nel dibattito politico ma lasciati al foro della coscienza individuale.
Per impostare giustamente il problema bisogna ricordare un principio di fondo, che sta alla base della nostra tradizione culturale: la distinzione tra la sfera religiosa e quella politica, derivante dalla massima evangelica di «dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt., 22, 15-22). Questa sentenza distingue due autorità supreme nel proprio ordine, senza tuttavia separarle o metterle in contrasto.
La Civiltà cristiana del Medioevo ha conosciuto momenti di conflitto ma anche di profonda armonia e collaborazione tra questi due poteri. Il mondo moderno ha conosciuto invece un processo di emancipazione della politica dalla morale, che inizia con Machiavelli e prosegue con le grandi Rivoluzioni del XVIII secolo e del XX secolo. L’esito ultimo di questo processo di secolarizzazione della società è stato, nel Novecento, l’assorbimento della sfera religiosa in quella politica, da parte dei sistemi totalitari nazismo e comunismo, eredi della Rivoluzione francese.
L’Islam, apparso alla ribalta del XXI secolo, nega a sua volta la distinzione tra religione e politica, assorbendo la sfera politica in quella religiosa. Lo slogan dei Fratelli Musulmani, “Il Corano è la nostra Costituzione”, esprime efficacemente l’intima unione tra le due sfere. Se il comunismo è stato definito l’Islam del XX secolo, per il suo totalitarismo secolarista, l’Islam può essere definito a sua volta il comunismo del XXI secolo per il suo totalitarismo religioso, che unisce Chiesa e Stato, fede e politica.
Il principio della distinzione tra politica da una parte e religione e morale dall’altra, è dunque irrinunciabile. Quali sono le sue conseguenze? La prima è che la Chiesa ha il diritto e il dovere di esprimersi su tutti i temi religiosi e morali che concernono l’uomo, nella sua vita privata, come in quella pubblica. Parlare di quelli che Benedetto XVI ha definito i “valori non negoziabili” – vita, famiglia, educazione – fa parte della missione stessa della Chiesa. L’appello va rivolto a tutti, compresi e in primis, gli uomini politici. I vescovi infatti sono pastori di tutte le anime, comprese quelle degli uomini politici, e devono ricordare loro il dovere di promulgare leggi conformi ai principi dell’ordine naturale e cristiano.
Dal punto di vista di quest’ordine supremo, non vi è differenza fra gli individui e la comunità sociale e civile, poiché gli uomini, uniti in società, sono altrettanto sottomessi all’autorità della legge naturale di quanto lo siano gli uomini singoli.
Lo Stato ha come proprio fine di procurare il bene temporale e, nella sua sfera, è sovrano. Ma la Chiesa ha il diritto di veder rispettata la legge naturale di cui è custode e su cui la società umana si fonda.
I politici, da parte loro, hanno il diritto e il dovere di operare in conformità ai propri principi religiosi e morali. Non è ammessa in loro una scissione tra politica e morale. Non è ammesso cioè che siano onesti, veraci e leali nella loro vita personale e disonesti e menzogneri in quella pubblica. Allo stesso modo non è ammesso che essi seguano in privato la legge naturale o quella del Vangelo e contraddicano questa stessa legge nella loro azione pubblica.
La politica è certamente “l’arte del possibile”. Ciò significa che non sempre si può realizzare il proprio ideale politico e sociale. L’importante per un politico è fare di tutto per introdurre leggi buone, o migliorare le esistenti, e non assumersi mai la responsabilità di favorire o firmare le leggi cattive. Non si chiede ai politici di fare i vescovi, cioè di predicare la legge divina e naturale: essi devono realizzarla nei fatti, nei limiti delle loro possibilità. Allo stesso modo, i vescovi non devono fare i politici, rinunciando a ogni scaltrezza. In particolare essi non devono cimentarsi nell’opera di compromesso e di mediazione tipica del mondo politico, suggerendo leggi meno buone per evitare le pessime. I Pastori hanno il dovere di richiamare sempre il gregge all’ottimo.
Il punto di fondo, insomma, è quella che un tempo veniva definita la distinzione tra la tesi e l’ipotesi. L’ipotesi concreta può essere quella di un compromesso che si è costretti ad accettare. Ma la prima condizione perché ciò avvenga, è che sia sempre richiamata la tesi, cioè la posizione ideale a cui tendere con tutte le proprie forze.
Ieri l’ipotesi poteva essere quella della necessità di un Nuovo Concordato tra la Santa Sede e lo Stato italiano. Ma lo si volle stipulare senza richiamare la tesi “ottima” dello Stato cattolico. Fu anzi detto ai cattolici che uno Stato “neutrale” in materia religiosa era meglio di uno Stato o di una società ufficialmente cattolica. Oggi l’ipotesi può essere quella dell’impossibilità (tutta da verificare) di modificare nel momento presente la legge 194 che legalizza l’aborto. La tesi però che non si deve mai cessare di richiamare è che questa legge è profondamente iniqua e va abolita nel suo principio di fondo.
I cattolici devono desiderare una società in cui l’aborto non sia permesso per nessun motivo e nessuna circostanza. Tacere questa tesi significa introdurre nella mentalità dei cattolici l’idea che una società che rispetti integralmente la legge naturale sia storicamente irrealizzabile. Il che è falso e offensivo nei confronti dei comandamenti divini.
Parlare con chiarezza è missione innanzitutto dell’autorità religiosa, ma anche degli amministratori della vita pubblica, perché ciò che è in gioco sono i principi di legge naturale e divina, da cui dipende, oltre che alla salvezza eterna, il bene temporale della società.

 
Fonte: Radici Cristiane, Novembre 2009