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La data ufficiale della caduta dell'Impero romano di Occidente è il 476 dopo Cristo. In quell'anno, infatti, il barbaro Odoacre, dopo avere ucciso il suo rivale Oreste, depose l'ultimo imperatore, il giovane Romolo Augustolo, e rimandò a Bisanzio le insegne imperiali, accontentandosi per sé del titolo di re. L'Imperatore di Oriente rivendicò da quel momento l'eredità di Roma, almeno fino all'anno 800 dopo Cristo, quando Carlo Magno fu incoronato Imperatore e l'antico Impero romano risorse in Occidente come Sacro Romano Impero.
Ma la crisi istituzionale dell'Impero romano, che precipita nel 476 con la scomparsa visibile dell'Impero, è di molto precedente, risale ad almeno un secolo prima. Se volessimo indicare una data dovremmo scegliere l'anno 378, quando le legioni di Roma vengono disfatte dai visigoti nella piana di Adrianopoli e lo stesso Valente II, l'Imperatore di Oriente, cade sul campo di battaglia. Fu, per l'esercito romano, la più grave disfatta dopo la battaglia di Canne. Quest'evento, la battaglia di Adrianopoli del 378, segna la prima grande vittoria militare dei barbari su Roma e apre la strada alle grandi invasioni che caratterizzarono il V secolo, il secolo del definitivo tramonto dell'Impero romano.
Causa esterna del tramonto e poi del crollo dell'Impero romano sono le invasioni barbariche. Ma le cause vere e più profonde della decadenza e della fine dell'Impero di Roma sono interne, di carattere culturale e morale. Mentre i popoli barbari premevano ai confini di un immenso Impero che dall'Oceano Atlantico e dal Mare del Nord arrivava all'Africa Settentrionale, al mar Caspio, alle frontiere con i Persiani e con gli Arabi, la società romana era immersa nel relativismo intellettuale e nell'edonismo pratico. Perciò Benedetto XVI, in relazione all'Impero romano, ha affermato che il "disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando". Fu la corruzione morale a spalancare le porte ai Vandali, che nel 406 attraversarono il Reno ghiacciato, irrompendo nella Gallia, e ai Visigoti invasero Roma.
Oggi, piuttosto che di invasioni, si preferisce parlare di migrazioni per sottolineare il fatto che quelli che fecero irruzione nell'Impero romano erano popoli interi, provenienti dalle regioni più settentrionali d'Europa e dalle steppe dell'Asia. Quel che è vero è che nella storia delle invasioni barbariche possiamo distinguere fasi diverse. Una prima fase di infiltrazione pacifica e graduale, alla spicciolata, nei territori dell'Impero, tra il II e il III secolo, di uomini e gruppi attratti dall'alto tenore di vita di Roma e dalla sua cultura; una seconda fase, anch'essa pacifica, di stanziamento di interi gruppi barbarici, cioè di immigrazione e di stabile insediamento entro il limes romano, non di individui o gruppi frammentati, ma di popoli interi, destinati a divenire uno Stato nello Stato; una terza fase di grandi migrazioni di popoli all'interno dell'Impero, in forma sia pacifica che guerresca; infine, a partire dal V secolo, l'ultima fase, quella della violenta irruzione di popolazioni del tutto ostili, dai Vandali agli Unni, fino ai Longobardi nel VI secolo. Le migrazioni divennero prima invasioni, poi occupazioni e conquista dell'Impero romano che, sotto gli urti dei barbari, si sgretolò e scomparve.
Tutto iniziò, si può dire, in una notte di inverno dell'anno 406. Il 31 dicembre di quell'anno, le scarse guarnigioni romane di stanza sul Reno, nei pressi di Magonza, avvistarono una massa brulicante di barbari, che si perdeva a vista d'occhio al di là del fiume. Il Reno era una spessa lastra di ghiaccio che permise a quella massa di attraversarlo, irrompendo all'interno dei confini dell'Impero. I pochi che tentarono di opporsi furono massacrati. Erano Vandali, Alani, Svevi, tribù intere, con donne e bambini, carri, bestie e greggi, quelli che travolsero ogni resistenza e dilagarono in Gallia. Nulla poté più fermarli.
I due popoli barbarici più temibili erano i Vandali e i Goti: questi ultimi divisi a loro volta in due gruppi: gli Ostrogoti e i Visigoti. Altri popoli, tra cui i terribili Unni, premevano alle loro spalle. Quando i Visigoti invasero l'Italia, sant'Agostino, scrivendo nel 408 dall'Africa ad una delle sue amiche italiane, le scrisse: "La vostra ultima lettera non mi informa di nulla di quanto avviene a Roma. Vorrei tuttavia sapere bene quanto c'è di vero di una voce vaga arrivata fin qui, quella di una minaccia sulla città. Non vorrei prestarvi fede". Il timore del santo vescovo di Ippona diverrà due anni dopo realtà.
Nell'agosto del 410 i Visigoti guidati dal loro capo Alarico si presentano alle porte di Roma, la assediano e durante un terribile temporale entrano per la porta Salaria che fu aperta loro dal di dentro. La città più celebre del mondo che da ottocento anni non era stata invasa dal nemico fu esposta senza misericordia alla furia dei barbari che accesero i loro fuochi sulle pendici del Campidoglio. Alarico diede ordine di rispettare le Basiliche degli Apostoli ma diede, per il resto, licenza di saccheggio. Fu, per quattro giorni, un susseguirsi di rapine, incendi, stragi, in un'atmosfera di terrore. [...]
Queste parole ci fanno riflettere su quanto sia precario ed effimero ogni potere, ogni ricchezza, ogni onore umano. Fu proprio meditando sul sacco di Roma del 410 che S. Agostino compose la sua celebre Città di Dio, una delle più grandi filosofie cristiane della storia dell'umanità, concepita come la storia della lotta tra due amori: l'amore di sé fino all'odio e all'indifferenza per Dio e l'amore di Dio fino all'odio e all'indifferenza per sé. Questa visione della storia non ha perso la sua attualità.
L'Impero romano crollò perché in esso la legge morale e divina era trasgredita. Questo è ciò che ci attesta la storia e che, attraverso la storia, giunge a noi come un monito. Anche oggi popoli stranieri invadono l'Occidente. Si tratta di una migrazione pacifica e silenziosa che potrebbe trasformarsi però in un'invasione cruenta. I barbari erano estranei alla civiltà romana ma ne assimilarono la cultura e le tradizioni. I nuovi barbari proclamano di non volersi integrare nella nostra civiltà, di cui assimilano solo gli elementi di decadenza, rifiutandone cultura e tradizioni.
Anche oggi il cuore dell'uomo e, di conseguenza, la vita della società, oscilla tra due opposti richiami: l'amore di Dio, che si esprime nel rispetto dell'ordine che egli ha voluto dare all'universo, fino al punto di rinunziare a ogni nostro istinto e desiderio, pur di rispettare quest'ordine. Oppure l'amore di noi stessi, il libero gioco lasciato alle nostre passioni e alla nostra volontà di potenza, fino al punto di trasgredire, nella nostra vita e nella società intera, la legge di Dio. Questa la drammatica alternativa che sempre si pone nella storia e di fronte a cui non solo i singoli uomini, ma le civiltà, sono chiamate a una scelta.
Nelle tenebre del V secolo, brillarono solo le luci dei santi. Furono essi a comprendere che cosa accadeva e a infondere fiducia soprannaturale, quando tutto sembrava perduto. "Cristo ti parla, ascolta! – esclamava Sant'Agostino –. Egli ti dice: perché temi? Non ti avevo forse predetto tutto ciò? Te l'avevo predetto perché la tua speranza si volgesse, una volta sopraggiunta la sentenza, verso il vero bene, invece di oscurarsi nel mondo". Tutto ciò che accadde nella storia, come nella vita di ognuno di noi, ha un senso e un significato, conosciuto solo da Dio. [...]
È nelle virtù cristiane che ancora oggi occorre attingere la forza al male fisico che ci minaccia dall'esterno e a quello morale che ci colpisce dall'interno.
Colpisce il fatto che oggi le accuse alla nostra classe politica per il clima di Basso Impero e di decadenza morale in cui vive, siano fatte proprio da chi ha fatto del relativismo morale il suo programma.
In Italia e in Europa esiste una questione morale, ma chi ha titolo a intervenire nel merito è solo chi si richiama a valori morali perenni e non negoziabili. Come può chi nega di principio questi valori, rimproverare gli altri se li trasgrediscono? Sono queste le contraddizioni dell'epoca attuale, ma la contraddizione è la nota distintiva del relativismo. [...]
Abbiamo parlato dei barbari che invadono i territori dell'Impero, ne conquistano e devastano le città, raggiungono da Nord e da Oriente i suoi estremi confini: l'Atlantico e il Mediterraneo, saccheggiano Roma, caput mundi, la città sacra e inviolata che aveva dettato le leggi a tutto il mondo civile.
Ma questo nemico che Roma deve affrontare e da cui Roma sarà travolta è un nemico esterno. La causa più profonda del crollo dell'Impero romano non è in realtà di carattere esterno, ma interno. Non è di carattere politico e militare, ma di natura, culturale e morale. l'Impero romano crolla perché l'edificio è ormai tarlato e la sua forza non è più che apparenza. Cerchiamo di sviluppare anche questo punto, perché il Papa Benedetto XVI ha paragonato il tramonto dell'Impero romano a quello della civiltà occidentale contemporanea e questo paragone può aiutarci a meglio comprendere la crisi del nostro tempo.
Il tramonto dell'Impero romano, considerato sotto l'aspetto delle cause esterne – le invasioni barbariche – si situa tra due date: il 378, quando i barbari travolgono le legioni romane ad Adrianopoli è il 476, l'anno della scomparsa ufficiale dell'Impero. La crisi culturale e morale però non risale al V né al IV secolo: è precedente e risale all'atteggiamento di incomprensione e contrasto che l'Impero di Roma ebbe nei confronti del Cristianesimo.
Nei secoli che seguirono alla nascita di Cristo, l'Impero romano professava una religiosità ecumenica che fondeva il politeismo greco-romano con un sincretismo di origine orientale. Il luogo per eccellenza di questo culto era il Pantheon, che accoglieva tutte le forme del paganesimo, antico e nuovo, con l'unica esclusione del Cristianesimo.
Nell'Impero si professava una religione civile, senza dogmi e senza morale, alla quale lo Stato imponeva una adesione puramente esteriore. I cristiani, che praticavano una religione innanzitutto interiore, del cuore e della coscienza, ma sottomessa ad una verità oggettiva, rifiutarono l'adesione formale, espressa dall'incenso bruciato in omaggio agli idoli.
La testimonianza dei cristiani venne considerata una forma di pericolosa intransigenza e di fanatismo da parte di quelle autorità che pure professavano l'equiparazione sincretistica delle religioni. La sentenza che condannava i cristiani aveva di mira non specifici addebiti, ma il nomen ipsum, la semplice proclamazione del Cristianesimo.
Le persecuzioni raggiunsero il loro culmine con l'Imperatore Diocleziano, che regnò fino all'anno 305. Fu uno dei momenti più bui nella storia della Chiesa. Eppure, pochi anni dopo, un nuovo Imperatore, Costantino, concedeva piena libertà ai cristiani che potevano finalmente professare la loro fede pubblicamente e infondere il loro spirito nelle leggi promulgate in quegli anni. Fu la grande svolta costantiniana di cui celebreremo tra poco i 700 anni. L'ascesa del Cristianesimo, da Costantino a Teodosio fu irresistibile. Ma il paganesimo non si arrese e nel IV secolo sferrò una battaglia mortale contro il nome cristiano.
Il breve regno dell'Imperatore Giuliano l'Apostata, tra il 361 e il 363, fu l'espressione più acuta dell'odio pagano contro i cristiani, ai quali furono interdetti le magistrature e l'insegnamento, e fu proibito che essi fossero insigniti di onori o dignità. Dopo la morte di Giuliano, il centro dell'anticristianesimo fu il Senato di Roma, quel Senato che nel 37, pochi anni dopo la morte di Gesù Cristo, aveva espresso, con un "senato consulto", il proprio veto al Cristianesimo.
Il paganesimo nella seconda metà del IV secolo non era più una religione, ma una filosofia relativista che poneva tutti i culti religiosi sullo stesso piano, contro il Cristianesimo che affermava l'unicità di Cristo, unica via, verità e vita. La politica antipagana dell'Imperatore Teodosio, alla fine del IV secolo, non riuscì ad estirpare questa mentalità relativista, che si faceva scudo, contro il Cristianesimo, del Pantheon romano.
Lo scontro tra paganesimo e Cristianesimo ebbe un momento decisivo nella battaglia che si svolse, nel settembre del 394, presso il fiume Frigido (oggi Vipacco), un affluente dell'Isonzo, dove si scontrarono le truppe dell'Imperatore Cristiano Teodosio e quelle del suo rivale Flavio Eugenio. Vinsero i cristiani, ma al sorgere del V secolo, il 400, la mentalità pagana, edonista e relativista come quella odierna, era ancora diffusa nell'Impero romano e ne minava dall'interno le fondamenta morali.
Il paganesimo rappresentò per i cristiani del IV secolo un nemico peggiore dei barbari, perché era un nemico interno che impediva all'Impero di Roma di accogliere interamente il Cristianesimo. Il Vangelo non riuscì ad arrestare la disgregazione morale, dalle classi alte, che vivevano nel lusso e nell'ozio, fino al popolino, che si inebriava nei giochi sanguinosi del circo. Divorzio, prostituzione maschile e femminile, omosessualità, denatalità erano diffusi ovunque. La società di quest'epoca era una società decadente e corrotta che sant'Eucherio, vescovo di Lione, definisce "un mondo dai capelli bianchi".
Abbiamo ricordato la meditazione sulla caduta di Roma di sant'Agostino che il vescovo di Ippona iniziò a comporre nel 410 dopo il sacco dei Visigoti e finì proprio quando i Vandali, oltrepassata Gibilterra, si apprestavano a conquistare l'Africa romana. Meno conosciuta, ma altrettanto suggestiva e profonda è la meditazione di un altro autore cristiano del V secolo, Salviano di Marsiglia, nel De Gubernatione Dei, (tradotto in italiano come Il governo di Dio, Città nuova, Roma 1994). [...]
Salviano, dopo aver raccontato che i membri del Senato di Treviri, in Germania, nel momento in cui i barbari penetravano nella città erano intenti a banchettare, e non seppero decidersi ad interrompere il festino, ricorda che "mentre le armi dei barbari sferragliavano attorno alle mura di Cirta e di Cartagine, la comunità cristiana di Cartagine si dava alla pazza gioia nei circhi e si smidollava nei teatri! Fuori delle mura c'era chi veniva sgozzato, all'interno chi fornicava. All'esterno una parte della popolazione era prigioniera dei nemici mentre dall'altra parte, all'interno, era prigioniera dei vizi. E' difficile dire di chi fosse la sorte peggiore: i primi subivano una cattività puramente esteriore, corporea; questi altri erano schiavi interiormente. Tra queste due disgrazie mortali penso che la più leggera, per un cristiano, sia di subire la schiavitù del corpo piuttosto che quella dell'anima; e la conferma ci viene da quanto afferma lo stesso Salvatore nel Vangelo: è molto più grave la morte dell'anima di quella del corpo. (…). Sia all'esterno che all'interno delle mura si udiva un fragore di battaglie e di divertimenti: le urla di chi stava morendo si confondevano col baccano di chi si dava alle orge, e a malapena si potevano distinguere i lamenti della gente che moriva in battaglia a causa del frastuono prodotto nel circo dal popolo. Di fronte a fatti del genere, che altro faceva una gentaglia come quella se non reclamare la propria rovina mentre Dio, probabilmente, non intendeva ancora mandarli in malora?".
Cartagine, la capitale dell'Africa romana, contendeva ad Alessandria e ad Antiochia il primato della dissolutezza e godeva della reputazione di essere il "paradiso" degli omosessuali. Salviano interpreta l'invasione dei barbari come un castigo per questa trasgressione morale.
"Si poteva dare, vi chiedo, un vizio più innaturale di quello che ora vi dico, lì a Cartagine? (…) a Cartagine quel vizio non era poca cosa, ma una peste, anche se i travestiti non erano effettivamente moltissimi; succedeva però che l'effeminatezza di alcuni pochi contagiava la maggioranza. Si sa che per quanto pochi siano ad assumere atteggiamenti svergognati, sono molti a contagiarsi con le oscenità di quella minoranza. Un'unica prostituta, ad esempio, fa fornicare molti uomini; e lo stesso succede con l'abominevole presenza di pochi invertiti: infettano un bel po' di gente. E non saprei dire chi sia più colpevole davanti a Dio, dal momento che sia gli invertiti che le loro vittime sono condannati, secondo la sacra Scrittura, alla medesima punizione: «Gli uomini effeminati e gli omosessuali non avranno parte al regno di Dio».
Ora, ciò che suscita più pena e costernazione è che un crimine come quello veniva visto all'estero come proprio di tutta la romanità, e che tutto il prestigio del nome di Roma era ridotto a cenere grazie alla macchia infamante di quella mostruosità contro natura. E la ragione è questa: quando i maschi si vestivano da donna e camminavano ondeggiando peggio delle donne, quando si legavano addosso certi pendenti raffiguranti mostruose oscenità e si coprivano la testa con veli e fermagli femminili; quando tutto ciò avveniva pubblicamente in una città romana, la più grande e famosa di quella provincia, ebbene non era forse una vergogna per tutto l'Impero romano il fatto che nel seno stesso dello Stato si permettesse apertamente uno scandalo così esecrando? In realtà, un'autorità grande e potente che ha il potere di impedire un grosso delitto, se ne è a conoscenza e permette che venga perpetrato è come se ne approvasse l'attuazione. Rinnovo la domanda, spinto dal dolore, a coloro che se la prendono con me: fra quali popoli barbari si sono mai verificati questi fatti? Dove mai si è permesso che si compissero impunemente alla luce del sole?".
Salviano vuole dimostrare che il giudizio di Dio non si esercita solo alla fine del mondo, ma in ogni momento storico, e i barbari che hanno invaso l'Occidente sono uno strumento del giudizio di Dio. La Provvidenza, che trae il bene dal male, si serve di essi per purificare una società corrotta e decadente quale quella romana. Le parole di Salviano meritano di essere meditate. Noi oggi viviamo un'epoca in cui i peggiori vizi vengono alimentati dai mass-media e addirittura iscritti nelle leggi come diritti umani. Dio però non si disinteressa di quanto accade nella storia. Egli trae il bene da ogni male, ma ogni male deve avere il suo castigo, nel tempo o nell'eternità, così come nel tempo o nell'eternità ogni bene deve avere la sua remunerazione.
L'edonismo pagano fu una delle principali cause del crollo dell'Impero romano, ma non fu il peggior nemico che il Cristianesimo dovette affrontare. I barbari erano un nemico esterno all'Impero, il paganesimo edonista era un nemico interno all'Impero, ma esterno al Cristianesimo. Ma vi era un nemico ancora più insidioso, interno al Cristianesimo stesso, e questo era un nemico peggiore dei barbari e del paganesimo: si trattava dello spirito di divisione e di ribellione, degli scismi e delle eresie che iniziarono a incrinare la compattezza dei cristiani.
Il 313 era stato l'anno dell'Editto di Milano con cui Costantino aveva concesso piena libertà ai cristiani. La Chiesa esultava. Pochi anni dopo, nel 325, l'Imperatore Costantino aveva convocato a Nicea, il primo concilio ecumenico della Chiesa, in cui era stato proclamato il credo cattolico contro gli ariani, detto simbolo atanasiano dal nome di sant'Atanasio, vescovo di Alessandria, il più puro campione della fede ortodossa. Ma l'arianesimo penetrò tra gli stessi vescovi e non erano trascorsi dieci anni da Nicea che due sinodi, a Cesarea e a Tiro, condannarono sant'Atanasio per il suo fanatismo in materia ecclesiastica. Atanasio fu deposto dalla sua cattedra e fu esiliato. Da allora la sua vita riassunse per così dire le sorti della fede cattolica. Cinque volte egli fu mandato in esilio, cinque volte ritornò per riaffermare la verità della fede.
Si arrivò al punto che un Papa, Liberio, nel 357, ruppe la comunione con sant'Atanasio, dichiarandolo separato dalla Chiesa romana. I concili di Rimini e di Seleucia, nel 359, proposero un'equivoca "via media" tra gli ariani e sant'Atanasio. Fu allora che san Girolamo coniò l'espressione secondo cui "il mondo gemette e si accorse con stupore di essere diventato ariano".
La metà del IV secolo fu una delle epoche più confuse della storia, in cui secondo il cardinale Newman, oggi beato, il dogma della divinità di Gesù Cristo fu preservato più dal popolo fedele al suo battesimo che all'Ecclesia docens.
Quando l'arianesimo finalmente fu debellato sorsero, alla fine del IV secolo, nuove devastanti eresie, come il donatismo e il pelagianesimo. I cattolici ancora una volta si divisero e sant'Agostino fu, all'inizio del V secolo, ciò che Atanasio era stato nel secolo precedente: un campione della fede ortodossa.
La Babele regnava tra i cristiani che non rappresentavano un corpo coeso davanti al duplice nemico che avevano di fronte: il paganesimo all'interno dell'Impero e i barbari al suo esterno. Questa situazione di confusione e disorientamento generale costituì la ragione più profonda del tramonto dell'Impero romano, tramonto spirituale e morale, prima che declino politico, economico e sociale.
Per i Barbari non fu difficile prevalere e il V secolo fu una delle ore più buie nella storia dell'Occidente. Eppure in questa oscurità un astro brillò: mentre l'Impero di Roma si disfaceva, a Roma nasceva un nuovo Impero, non politico, ma spirituale, che abbracciava le anime nel mondo intero, che sfidava i secoli, che ancora oggi è in piedi, nell'ora di questo nuovo tramonto, che non è più il tramonto dell'Impero romano, ma è il tramonto dell'Occidente, mentre nuovi barbari premono alle porte e nuovi pagani perseguitano i cristiani all'interno.
"L'Impero – scrive Dom Guéranger – crollerà pezzo a pezzo sotto i colpi dei barbari; ma prima di infliggergli l'umiliazione e il castigo, conseguenza dei suoi crimini secolari, la giustizia divina attenderà che il Cristianesimo, vittorioso sulle persecuzioni, abbia esteso abbastanza in alto e abbastanza lontano i suoi rami per dominare ovunque i flutti di questo nuovo diluvio; lo si vedrà poi coltivare di nuovo e con pieno successo la terra rinnovata e rinvigorita da queste acque purificanti benché devastatrici".
Dopo il tramonto dell'Impero romano calò la notte sull'Occidente, ma nelle tenebre brillò una luce che annunciò un nuovo giorno della storia. Gli autori del V secolo intravedono questa luce nel Papato, la prima grande istituzione europea che sorge tra le rovine della Romanità. Prospero di Aquitania, discepolo di sant'Agostino e autore di un'opera dedicata a La vocazione dei popoli (Città Nuova, Roma 1998), vede nel Papa Leone I, l'uomo che riuscì a salvare Roma dall'invasione di Attila, il protagonista di questa rinascita. Era il mese di agosto del 452 quando una delegazione romana, guidata da Papa Leone, affronta sul fiume Mincio, Attila il capo degli Unni. Non conosciamo le parole che gli rivolse, ma Attila, il flagello di Dio, tornò indietro, abbandonò l'Italia e san Leone Magno, salvò Roma, smentendo trionfalmente le critiche dei pagani che attribuivano ai cristiani la perdita dell'Impero. Nel V secolo nessun personaggio, come Leone, ebbe maggiore consapevolezza del tramonto dell'Impero romano, ma anche dell'ascesa di una nuova Roma il cui Impero sarebbe stato molto più vasto e glorioso di quello antico. La Roma cristiana, fondata dagli apostoli Pietro e Paolo, prendeva ormai il posto dell'antica Roma pagana fondata da Romolo e Remo.
I secoli bui passarono e l'Impero romano, dopo il tramonto, rinacque cristiano, inaugurando la splendida stagione del Medioevo. Tutto ciò ci insegna che non esistono tramonti irreversibili nella storia e che la Provvidenza tutto può quando agli uomini tutto sembra perduto. Questa fiducia soprannaturale ci anima e ci spinge a guardare con speranza al trionfo della Chiesa, questo sì irreversibile, dopo l'epoca di tramonto che oggi attraversiamo. È una promessa che va di pari passo con quella di Fatima e che ci deve fare dire: infine la Santa Chiesa romana trionferà.
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