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« Torna agli articoli di Valentina Fizzotti

Mentre gli americani festeggiavano il 4 luglio, la potentissima rete di cliniche abortiste Planned Parenthood ricordava loro che l’«Independence Day» non è solo barbecue e fuochi d’artificio. Proprio in quel momento, ha scritto la presidentessa, Cecile Richards, mentre i parlamentari sprecavano lodi ai servitori dello Stato, alle donne soldato era «negata la libertà fondamentale di prendere le proprie decisioni mediche». Non su come salvarsi la pelle, ma sulla possibilità di abortire. «Difendete le donne in uniforme», ha scritto, perché in America i «diritti delle donne» da oggi passano per l’esercito. Nell’approvare la legge che decide gli stanziamenti per la Difesa americana per il 2011, la Commissione competente al Senato ha votato un emendamento che elimina il divieto di praticare aborti negli ospedali militari. La motivazione, spiegata da chi l’ha scritto, il democratico Roland Burris, è l’esercizio del «diritto garantito dalla legge» alle donne, anche a quelle che sono valorosamente in missione. «Le soldatesse non sono protette dalla Costituzione che difendono», hanno rincarato i pro-choice, peccato che la Costituzione americana non garantisca l’aborto a nessuno. L’ultima battaglia per il «diritto ad abortire» ha trasformato in paladina una marine, Amy, che nel documentario The coat hanger project (più o meno traducibile con «Il progetto ferro da calza») ha raccontato di aver rischiato la morte con un aborto fai-da-te in caserma a Falluja. Nell’ondata di indignazione ideologica contro uno Stato che non le ha permesso di risolvere in fretta il suo problema, nessuno ha però speso una parola sul fatto che la soldatessa sia stata violentata da un collega e che non abbia avuto il coraggio di denunciarlo. Anche perché lo stupro, l’incesto e il rischio di morte imminente sono gli unici casi in cui l’aborto è già consentito nelle strutture militari. Ora i repubblicani annunciano un controemendamento in Aula e sperano nella compattezza del fronte pro-life . Questo testo, hanno fatto notare, rischia di trasformare in abortifici e centri di selezione del figlio sano i 260 ospedali dell’esercito americano nel mondo, magari non soltanto a uso di soldatesse e mogli di militari. Introdurre l’aborto volontario significherà spingere sul personale medico e sanitario perché «elimini vite umane innocenti», ha scritto ai senatori l’Ordinario militare per gli Stati Uniti, l’arcivescovo Timothy Broglio: «Non mettete questo fardello pesantissimo sulle spalle dei meravigliosi uomini e delle meravigliose donne delle Forze Armate». Il finanziamento e la pratica di aborti nelle basi militari americane sono vietati dal 1988. Quello che il fronte dei «diritti delle donne» non ricorda, però, è che prima di allora (e prima che il Codice delle Forze Armate contemplasse il diritto a essere madri), a cavallo della legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza, le donne nell’esercito erano di fatto obbligate ad abortire, pena il licenziamento. Nel ’93 Bill Clinton tolse il divieto, ma il Congresso lo istituì nuovamente nel ’95. Anche perché, come ha ricordato nella sua lettera ai senatori il cardinale Daniel Di Nardo, presidente del Comitato per le attività pro-life della Conferenza episcopale americana, fu chiaro che non si trovavano medici militari che volessero fare aborti: erano lì per salvare vite, non per eliminarne. E l’idea clintoniana di ricorrere a medici privati era inutilmente costosa. (...)
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