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« Torna agli articoli di Vincenzo Gubitosi

Il 14 gennaio, anniversario della nascita di Giulio Andreotti, Serena, figlia dello statista, ha rilasciato a InTerris un'intervista che reca nel titolo: «Mio padre si pentì della legge sull'aborto». Proponiamo qui una lettura di alcuni segni che vanno, ci sembra, in una direzione e anche nell'altra. Come da tradizione democristiana.
Cominciamo col dire che la 194 è l'unica legge abortista al mondo ratificata e promulgata con la firma di soli politici cattolici. È celebre quel passaggio che Andreotti, allora presidente del consiglio, annotò nel suo diario: «Mi sono posto il problema della controfirma a questa legge (lo ha fatto anche Leone per la firma) ma se mi rifiutassi non solo apriremmo una crisi appena dopo aver cominciato a turare le falle, ma oltre a subire la legge sull'aborto la Dc perderebbe anche la presidenza e sarebbe davvero più grave». Come ricorda anche la figlia nell'intervista, Andreotti giudicò prevalente la "ragion di Stato" in un momento storico molto duro per l'Italia, che aveva assistito solo due mesi prima all'omicidio di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse. Siamo convinti che quella "perdita della presidenza" valutata «più grave» dell'approvazione di una legge omicida, derivasse dal sincero desiderio di risparmiare alla nazione una crisi istituzionale e non da un triste attaccamento alla poltrona. Pur tuttavia, come imparano i bambini al catechismo, il fine (buono) non giustifica i mezzi (cattivi).
PARE DI SÌ, PARE DI NO
Nessuna sciagura, per quanto grave, avrebbe mai legittimato la firma di quella legge. Scrive Roberto de Mattei: «Andreotti si difese in una lettera a padre Rotondi, dicendo che il suo era "un atto dovuto". Atto dovuto forse secondo i princìpi del positivismo giuridico, ma non certo secondo quelli della morale cattolica, per la quale gli unici doveri assoluti che abbiamo sono quelli nei confronti della legge divina e naturale che, nel caso specifico, vieta di uccidere l'innocente». In realtà, cosa che non tutti sanno, il governo si spinse fino al compimento di un atto per nulla dovuto, al fine di sostenere la neonata legge sull'aborto: nell'udienza del 5 dicembre 1979 dinanzi alla Corte Costituzionale, l'Avvocatura dello Stato difese la costituzionalità della 194, invece di sollevare questione di legittimità.
Andreotti ha manifestato pubblicamente il suo pentimento per quella firma?
Pare di sì, se stiamo alla dichiarazione rilasciata in occasione del venticinquesimo anniversario della 194, quando disse: «Oggi preferirei dimettermi piuttosto che controfirmare quella legge».
Pare di no, se stiamo a quanto dichiarato al Foglio nel maggio del 2008: «Ritardare [l'approvazione della legge, ndr], certo, poteva evitare nell'immediato un impatto un po' traumatico; però avrebbe anche protratto un dibattito su un tema così forte che giustamente interessava tutte le forze politiche [...]. In quel contesto è corretto dire che riuscire a convergere su una legge di quel tipo fu un segnale politico forte. [...] Ma siccome la gran parte delle legislazioni del mondo l'aborto lo contemplava, ringraziamo Dio che ce lo siamo levato di torno perché ce lo saremmo ritrovato successivamente e magari avrebbe complicato ancora di più le cose».
DI MALE MINORE IN MALE MINORE
A leggere queste ultime dichiarazioni non si direbbe di avere a che fare con il mea culpa di un politico che fa pubblica ammenda. A ciò si aggiunga che nel 2003, in occasione della presentazione in parlamento di quella che sarebbe divenuta la legge 40/2004 sulla c.d. "procreazione medicalmente assistita", il senatore Andreotti votò a favore. Chi possiede anche solo qualche nozione sulla procedura per la fecondazione artificiale, sa bene che si tratta di una tecnica intrinsecamente occisiva perché richiede, per il suo "successo", il sacrificio di un elevato numero di embrioni.
Giulio Andreotti, è doveroso dirlo, non sembra aver mai manifestato, pubblicamente, una posizione di ravvedimento netta, univoca e soprattutto coerente nel tempo, che fosse proporzionata alla gravità dell'atto compiuto in quel maggio del 1978. È doveroso dirlo perché, complice quella Democrazia Cristiana che avrebbe dovuto agire da baluardo del diritto naturale, in troppi, da qualche decennio a questa parte, si sono assuefatti al compromesso sull'esempio di un'azione politica perennemente ondivaga. Così, di male minore in male minore, siamo passati dalla padella alla brace.
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