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« Torna agli articoli di Vittorio messori
Ditemi voi: come fa a non annoiarsi, magari a infastidirsi uno con la mia età (e che, dunque, ha visto troppe volte il continuo ripetersi delle utopie, delle illusioni, degli errori), uno con alle spalle, per giunta, anni universitari in cui ha cercato di apprendere le leggi della cosiddetta "scienza della politica"? Ma sì, malgrado tutto anche la politica può essere, oltre che un'arte, una "scienza", nel senso che è retta da alcune leggi costanti che si possono sfidare solo se si è pronti a sopportare i danni.
Una delle chimere ricorrenti è quella del "movimento" - egualitario, democratico, libero, snello, economico - da contrapporre al "partito": gerarchico, burocratico, dogmatico, costoso. Un mito che ritorna sempre eguale, malgrado ogni esperienza: la quale mostra la verità di una di quelle leggi della politica che dicevo. E che, cioè, un "movimento" si dissolve sempre e presto, esauriti i primi entusiasmi (causati di solito da un fondatore carismatico) e se vuole durare e incidere sulla società si trasforma necessariamente, inevitabilmente, in una istituzione. E in particolare, per quanto riguarda la politica, in un partito con capi, sedi, tessere, disciplina interna e quant'altro. I fervori, gli entusiasmi, le libertà iniziali svaniscono presto e lasciano il posto alla burocrazia partitica, quali che siano le intenzioni di fondatori e militanti.
È una constatazione elementare, per la quale, in verità, non occorre un politologo, bastando una persona di buon senso: Ed ecco invece che, alle ultime elezioni politiche, quasi un quarto degli elettori italiani dà fiducia a un urlatore che definiscono un comico (anche se a dire il vero mi pare abbia fatto ridere sempre poco) e che ripresenta come una realtà salvifica, come una novità dirompente destinata a salvare il Paese, proprio un "movimento" da contrapporre ai malefici "partiti" e a cui dà il nome di un albergo: "Cinque Stelle". Fin che si trattava di strillare volgarità e insulti a tutti e a tutto nei comizi piazziaioli, sembrava agli sprovveduti che il "movimentismo" alla Grillo potesse funzionare. Ma il demagogo è stato subito punito da un successo elettorale da lui imprevisto e a lui sgradito. In effetti, è agevole (e gratificante, a causa degli applausi), inveire contro le "caste" partitiche, annunciare apocalittici disastri, quando si è piccola minoranza, quando si dice no a tutto e si sta ai margini della politica; quando, non avendo responsabilità di governo, non si deve fare i conti con la realtà. E invece, allo sventurato Grillo proprio questo è capitato: avere una spiacevole, esagerata responsabilità che ha subito mostrato che il "movimento" non funziona, che non può funzionare e che di fronte a esso sta o il rapido squagliarsi di tutto o il trasformarsi nel solito partito. Com'è successo, per fare un solo esempio, al fascismo, nato come movimento ma, una volta raggiunto il potere, fattosi subito partito, per giunta unico e totalitario. Le ispirazioni anarcoidi degli inizi trasformate presto in regime oppressivo e onnipotente. Per stare più vicini nel tempo, anche quello di Berlusconi nacque come "movimento", rifiutando sin dal nome quello di un partito e assumendo il grido della folla negli stadi: «Forza Italia». Ottenuto il successo, si cominciò con gli eufemismi: «Un partito sarebbe necessario, lo faremo sì ma "leggero"». Ma è anche da simili ipocrisie, dal mancato riconoscimento di una necessità essenziale, che vengono i guai di quella precaria e artificiosa formazione politica.
Comunque, causa di noia e di fastidio è sentire ribadire - nel fervore artificioso dei comizi - la pretesa di essere "movimentisti" e non "partitici" e nel vederla annunciata come una nuova strada, mentre è vecchia, stravecchia e finita sempre come constatiamo anche ora nell'ultimo caso, quello dell'esagitato e barbuto Grillo. Il quale, tra l'altro, annoia in generale per tutto il resto che si capisce del suo "messaggio" (le virgolette sono d'obbligo, per questo insieme di urla e di minacce scomposte). Qui pure, le solite dinamiche che monotonamente si ripetono sin dai tempi remoti: l'apocalittismo, la società che corre verso il baratro, il diavolo (di volta in volta identificato in un gruppo sociale: capitalisti, borghesi, ebrei, nel caso di Grillo i politici, "la casta"), il diavolo dunque che lavora per portare tutti alla perdizione; ma ecco l'apparizione provvidenziale di un profeta che raduna attorno a sé un gruppo di persone intrepide e consapevoli, di paladini della verità e dell'onestà, ecco la creazione di una comunità al di fuori della quale non c'è salvezza, ecco l'anatema per chi lascia l'arca di salvezza, e così via, in una serie di déja vu, di costanti sempre ripetute, sin dai tempi antichi. Dal tempo, diciamo, degli esseni, buon esempio di setta escatologica. Che sbadigli! Ma bisogna rassegnarsi, la noia è lo scotto inevitabile da pagare alla "età matura" (per usare il solito eufemismo che neghi il nome stesso della vecchiaia), l'età, comunque, in cui si constata rassegnati l'eterno ritorno delle stesse illusioni di colui che ci si ostina a chiamare homo sapiens.
Perché parlare di questo proprio qui, in un giornale di apologetica cattolica? Ma perché la costante che esaminavamo non vale soltanto in politica ma, più in generale, nella società intera, compresa la dimensione religiosa. E compreso, dunque, il cristianesimo, il quale nacque - appunto - come un "movimento" di discepoli ferventi e coraggiosi, pronti a mettere in comune tutti i beni e disposti persino (come avvenne tanto spesso) ad affrontare la morte. Così successe per circa tre secoli, quando i cristiani furono una minoranza, concentrata nelle città, spesso perseguitata e, comunque, senza alcuna responsabilità ufficiale. Durò fino a Costantino e, soprattutto, fino a Teodosio, l'imperatore che vietò il culto degli dèi pagani, permettendo solo quello del Cristo. Si completò allora il passaggio, come sempre inevitabile, da movimento in istituzione: non un partito, qui, ma una Chiesa gerarchica, organizzata, con leggi interne ed esterne, proprietaria di beni. Com'era indispensabile e giusto: soltanto così era possibile affrontare la sfida del tempo e non solo sopravvivere ma influire in modo efficace sulla storia. Da qui il candore, pur spesso in buona fede, di quei cattolici che vagheggiano un ritorno alla comunità cristiana descritta dagli Atti degli Apostoli, quella che appare anche nelle lettere di Paolo. Candore, dico, perché non ci si rende conto che, se non si fosse trasformato in una solida istituzione - con un Capo supremo, con lo Stato Maggiore dei vescovi, con abbazie e parrocchie a presidiare il territorio - del "movimento cristiano" delle origini sarebbe rimasto solo un cenno nei libri di storia o, al massimo, un gruppo border line, una setta marginale, priva di serio influsso. La logica dell'Incarnazione va rispettata sino in fondo: volendo la sua Chiesa nel mondo, in attesa del ritorno, il Cristo non l'ha esentata dalle leggi che reggono le istituzioni umane. Anche se, a differenza di queste, l'istituzione cattolica non è che lo strumento, il "contenitore" per un Mistero che travalica la storia e sfocia nell'Eterno. La Chiesa è una realtà "ambigua" (nel senso etimologico): la conchiglia che tutti vedono e la Perla al suo interno che solo la fede scorge. Ma per conservare e annunciare quel tesoro, il contenitore esterno - umano e, dunque, spesso sgraziato - è necessario.
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