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IL PAPA INDICA LA VITA DEI MONACI BENEDETTINI COME ESEMPIO
di Vittorio Messori
 

Perché un papa bavarese del XXI secolo predilige a tal punto un monaco sabino del VI secolo da averne assunto il nome e da considerarlo il patrono del suo pontificato? Perché, fra tanti luoghi che lo invocano, ha scelto di recarsi domani a Montecassino, per una domenica di full immersion  nel mondo benedettino? Perché, poche ore prima della morte dell’amato predecessore, si è recato a Subiaco, dove è iniziata l’avventura del monachesimo d’Occidente,  per leggervi ciò che parve una sorta di programma di governo?
Per comprendere una simile attenzione, occorre ricordare che il lucido  teologo, l’intellettuale post-moderno divenuto pastore di anime, ha da sempre, e ora più che mai, un assillo: l’indebolirsi della fede  di cui è custode e garante. Una fede, ha scritto di recente, <<che sembra spegnersi come una candela cui viene a mancare l’alimento>>. Da qui, la necessità di ritrovare le ragioni del credere, di riconfermare la ragionevolezza della “scommessa“ sulla verità del Vangelo. L’enorme edificio ecclesiale è in bilico (parola di san Paolo) sulla storicità di un sepolcro vuoto, a Gerusalemme. Se venisse  meno questa certezza, non resterebbe che un drammatico << tutti a casa ! >>.       
Avviene, ormai da decenni, un fatto che inquietava Joseph Ratzinger  responsabile dell’ex-Sant’Uffizio e  che ora inquieta ancor più Benedetto XVI. Il fatto,  cioè,  che  quanto resta di un  cristianesimo falcidiato dal secolarismo tenda a trasformarsi in una associazione mondiale di volontariato, in un’organizzazione no-profit  di impegno sociale. L’amore cui esorta il vangelo è inteso da molti in senso solo “orizzontale“: dunque, la carità del pane e dell’impegno socio-politico per una società più pacifica,  giusta, meno inquinata. Questo, in effetti, lo slogan “trinitario“, proposto come  nuovo Credo dal Consiglio Ecumenico delle Chiese di Ginevra: << Pace, giustizia, salvaguardia del creato >>.
Ebbene: dietro alla rimozione della prospettiva cristiana autentica – che  si fa  “orizzontale“ come conseguenza della sua “verticalità“, che guarda alla Terra perché crede nel Cielo –  c’è una crisi di fede che è il vero, drammatico problema del cristianesimo moderno. Appannata la speranza in  una vita eterna nell’Aldilà, i superstiti engagés  cercano appagamento sensibile  nell’impegno per una vita migliore   nel presente, ripiegano sulle  certezze tangibili  dell’Aldiquà. La fede nell’uomo e nella storia  sostituisce quella in Dio e nell’eternità, il militante per le buone cause prende il posto dell’orante  e dell’asceta. Cristiani (ma senza Gesù come Cristo-Dio: non usiamo parole troppo grosse!)  come filantropi, adepti del volontariato, sindacalisti, ambientalisti, custodi suscettibili  dei “ diritti umani“....   
E’ una  deformazione  inquietante  che, in un passato recente,  è passata attraverso la fase del clerico-marxismo e che  ora ha assunto le vesti della nuova ideologia egemone, quella della political correctness, del radicalismo liberal, occidentale. Che importa aderire a dogmi e perder tempo in preghiere, quando c’è un mondo che può salvarsi grazie alle forze umane, di qualunque Credo o incredulità, purché di buona volontà ? 
Questa deriva fu causa di angoscia per Paolo VI, fu contrastata dallo straordinario mix di misticismo e di concretezza di Giovanni Paolo II ed è la priorità assoluta su cui intervenire per Benedetto XVI. Tutti gli ultimi papi furono ben consapevoli che – per la logica dell’et-et che sempre lo guida e per il rifiuto di ogni aut-aut - il cristianesimo è chiamato a umanizzare la Città dell’uomo ma perché crede nella Gerusalemme celeste, si infanga  nel mondo ma perché prega, si preoccupa dei  corpi mortali ma in quanto chiamati all’immortalità. Un equilibrio, una sintesi  che sembrano  essersi rotti: l’indebolirsi della fede ha sbilanciato coloro che, pur non rinnegando esplicitamente il Credo (la contestazione rumorosa è finita per stanchezza, per senso di irrilevanza, talvolta per dissimulazione), non lo giudicano necessario per il loro darsi da fare.
Anche, forse soprattutto, questo, può spiegare l’attenzione che, sia prima che dopo il pontificato, Joseph Ratzinger  ha riservato alla vita monastica. Una vita assurda, insopportabile, anzi disumana. Un ergastolo – la scelta è a vita – ben  peggio di quello nelle  prigioni pubbliche:  rinuncia alla famiglia,  astensione dal sesso, nessuna proprietà personale, otto ore di preghiera comunitaria quotidiana  più altre in solitudine, veglie notturne, penitenze, alimentazione scarsa e vegetariana interrotta da frequenti digiuni, freddo e caldo,  obbedienza pronta e assoluta, divieto di varcare il muro della clausura, lettere  e letture sotto controllo, notizie scarse e filtrate dai superiori, convivenza stretta, continua, senza termine con compagni imposti e non scelti... Un inferno. Un inferno che  però, può rovesciarsi in un  paradiso.  Ma solo -solo- in una visione  di fede che non esiti sulla verità del Vangelo e sulle sue promesse;  un paradiso solo  per chi creda, senza dubitare, che Gesù Cristo è davvero ciò che la Chiesa annuncia. Una vocazione per pochi, certo. Ma nella quale si manifesta una fede totale, radicale, che non esita a spingersi sino a quelle estreme  conseguenze di cui Montecassino è simbolo illustre da quindici secoli. Il benedettino mostra con la sua vita stessa che la fiamma della sua candela ha ancora alimento. Forse è proprio  questa luce, rara e preziosa, che Benedetto XVI vuole  additare a noi, credenti sempre più increduli. Noi che del distico  monastico abbiamo conservato, semmai,  solo il labora, dimenticando del tutto l’ora.

 
Fonte: 3 maggio 2009