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Il consumismo è sul banco degli imputati e anche non pochi vescovi e sacerdoti inveiscono contro questo veicolo di “secolarizzazione”, ma in realtà chi condanna o non ne conosce l’essenza o è piuttosto in cerca di un alibi.
II consumismo è sul banco degli imputati, accusato di un vero e proprio crimine contro l'umanità, di attentato ai valori più alti dell'uomo e della società che renderebbe schiavi di un pericoloso impoverimento spirituale, del materialismo. La Chiesa è in prima fila tra gli accusatori, ma non è sola; si può anzi parlare di unanimità della condanna: non si trova qualcuno che dissenta, o anche solo che prospetti delle attenuanti. Un paradosso domina la questione: il consumismo, unanimemente additato al pubblico ludibrio, da tutti condannato, privo di difensori, anche di difensori d'ufficio, prospera e domina la vita degli uomini: significativo che non ne siano indenni nemmeno le fasce di reddito più basse, i «poveri» delle società opulente.
Ipocrisia? Non proprio; dell'ipocrisia il consumismo sembra non aver bisogno: convive alla luce del sole con tutte le ideologie che lo negano, difeso proprio dall'unanimità di una sprezzante condanna che non lo sfiora nemmeno. C'è sotto, evidentemente, qualcosa da scoprire e su cui vai la pena di meditare. La spiegazione ufficiale, da tutti condivisa, è che il consumismo dilagante sia frutto di una violenza subdola, cui l'uomo moderno viene sottoposto e alla quale non è in grado di sottrarsi.
L'ossessione del consumo sarebbe il risultato di una violenza di massa architettata e realizzata dal mercato capitalistico, dal sistema delle imprese che, per la massimizzazione del profitto, plagiano con raffinate tecniche scientifiche i consumatori e fanno sorgere in essi bisogni superflui o fasulli, spingendoli (costringendoli) ad appagarli: facendone veri e propri robot al servizio del profitto e dello sviluppo economico. La ricchezza delle moderne società farebbe precipitare l'umanità in una schiavitù diversa ma altrettanto, se non più, degradante di quella prodotta dalla miseria delle società pre-industriali. Collocato nella comoda posizione di vittima, l'uomo-consumatore è tranquillo, continua a consumare, a lavorare per consumare, partecipando ogniqualvolta si presenti l'occasione alla condanna del consumismo.
Non è colpa del marketing.
E così? Precisiamo anzitutto che cos'è il consumismo. Consiste essenzialmente nell'attribuzione all'atto del consumo - cioè dell'appagamento dei bisogni materiali consentito da un crescente potere d'acquisto - di un valore che tende a essere egemone, che porta il più delle volte all'indebolimento, se non al soffocamento, dei valori spirituali. La spiritualità lascia il posto all'assillo di appagare i bisogni materiali; non solo: poiché il consumo dipende dal potere d'acquisto, l'individuo da alla sua vita l'obiettivo strategico di aumentare il potere d'acquisto per poter massimizzare i consumi.
Una continua rincorsa. Quando smette di lavorare, si riposa consumando. La felicità umana s'identifica con la realizzazione del consumo. Veniamo ora al punto della questione: la supposta violenza. La tesi del plagio non regge; è smentita, fra l'altro, dalle seguenti circostanze: in primo luogo la concorrenza tra le offerte di consumo neutralizza la capacità del marketing di imporre al consumatore determinati consumi: è il consumatore che sceglie, razionalmente, tra le sempre più numerose alternative; una razionalità accentuata dalla crescente povertà relativa, che caratterizza ogni fascia di reddito. Crescente povertà relativa perché il potere d'acquisto aumenta sì incessantemente, ma crescono più che proporzionalmente i bisogni da appagare. In secondo luogo non ha senso nelle moderne società parlare di bisogni superflui: la vecchia distinzione tra bisogni primari e secondari non esiste più e tutti i bisogni tendono a diventare primari: spetta al consumatore decidere, liberamente, il ruolo gerarchico dei bisogni.
Infine, come ben sanno coloro che si occupano di vendite, il successo di ogni operazione di marketing presuppone l'assenza di barriere frapposte da valori interiori del consumatore ostili a quelle proposte: IL MARKETING PUÒ SOLO SFONDARE PORTE APERTE. Non vale quindi nemmeno obiettare che la violenza è globale, esercitata dall'insieme delle politiche di marketing dell'industria, perché determinante è il sistema di valori dell'individuo: solo se i suoi valori sono in sintonia con i valori del consumo, la strada è aperta al consumismo. I valori dello spirito non sono dunque coartati da una violenza che impone i valori del consumo, del materialismo: SE IL CONSUMISMO DILAGA È PERCHÉ I VALORI DELLO SPIRITO SONO GRACILI O NON ESISTONO. Siamo di fronte a una libera scelta dell'individuo, che però vuoi apparire - a sé stesso prima che agli altri - vittima di una violenza che non esiste. INVEIRE CONTRO IL CONSUMISMO È UN ALIBI, una moda.
È lo spirito che è debole.
II consumismo esprime nient'altro che la libertà dell'uomo il quale, uscito finalmente dalla schiavitù della miseria e dotato delle alternative offertegli dalla ricchezza, mostra nell'uso di questa libertà i valori che ha dentro di sé, valori che sono alla base delle scelte di consumo. IL CONSUMISMO CONSENTE COSÌ DI GUARDARE DENTRO L'UOMO, oltre il velo dell'ipocrisia, di contemplarne il paesaggio spirituale: È IL MOMENTO DELLA VERITÀ, CHE NELLE SITUAZIONI DI MISERIA NON POTEVA MANIFESTARSI. Quel che risulta è sotto gli occhi di tutti: non è un bello spettacolo!
Se questa diagnosi è valida, la discussione si sposta su due fondamentali interrogativi: perché i valori dello spirito sono cosi deboli, se non inesistenti come mostra il dominio incontrastato del consumismo? E soprattutto: che cosa occorre fare per rivitalizzare la spiritualità dell'uomo, non solo del popolo cristiano ma dell'intera umanità?
Interrogativi ai quali è arduo dare una risposta, ma che pretendono di averla. Proprio il consumismo si offre di fare da guida: può aiutarci a evitare la genericità se non l'indeterminatezza che avvolgono il fenomeno della spiritualità dell'uomo che vive nel contesto delle società moderne. Un'agenda di riflessione, incompleta ma significativa, è la seguente. Ciò che prima di tutto urge fare è dare al concetto di spiritualità un contenuto definito, uscendo da una indeterminatezza intollerabile, che si manifesta quando si abbandona una concezione confessionale, restrittiva, della spiritualità, limitata alla vita religiosa dei credenti; tenendo presente che la nostra è ormai una società post-cristiana, come autorevoli fonti ecclesiastiche hanno affermato.
Dobbiamo smettere di evocare in continuazione la spiritualità, di farne l'apologia, lasciandone nel vago la sostanza e le concrete modalità di realizzazione. Quanto alle fonti della spiritualità, la prima è certamente l'educazione religiosa, alla quale spetta un ruolo fondamentale nel far nascere e nell'irrobustire i valori dello spirito (non solo nei credenti), quei valori che se esistenti sbarrerebbero la strada al consumismo. Com'è la situazione? A noi pare che l'educazione religiosa sia gravemente carente; usando il gergo economico diremmo che il marketing della carità, della cristiana carità, è debole, mal realizzato, sbagliato, perciò incapace di competere con il marketing del materialismo: lo dimostra il consumismo imperante. Perché non si sente l'urgenza di discutere su questo punto?
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