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Il naufragio della Concordia all'Isola del Giglio è un boccone amaro difficile da digerire. Non tanto perché le navi non possano andare a picco: ogni tanto accade, per motivi che consideriamo rispettabili o addirittura ineluttabili, come una tempesta furiosa o un'avaria meccanica. Ma la vicenda del Concordia è qualche cosa di completamente diverso.
E' buona regola che non siano i giornali a fare i processi, e anche in questo caso sarà bene aspettare gli esiti dell'inchiesta. Possiamo però commentare i fatti che emergono dalle cronache dei giornali, per affrontare il nodo più grosso di tutta questa storia: il comportamento del capitano. Che ha tutto il diritto di difendersi, e che non merita di essere linciato dai mass media. Tuttavia, alcuni aspetti della sua presunta condotta – in attesa di smentite e spiegazioni, sempre possibili – meritano un commento.
La prima riflessione riguarda l'errore umano: una nave imponente e portentosa come il Concordia sembra fatta apposta per dimenticarsi il ruolo che l'uomo continua a giocare nella realtà. La tecnologia – e peggio ancora la tecno-scienza – tendono a farci sopravvalutare il fattore meccanico, e a svilire l'importanza dell'atto umano. Il risultato è che le navi inaffondabili, gli aerei supersonici e le banche infallibili continuano rispettivamente ad affondare, a cadere e a fallire. In questa tragica e affascinante partita che è la vita, la libertà umana, la genialità, la leggerezza, il coraggio e la viltà del cuore dell'uomo continuano a essere decisivi. Strumenti sofisticati, sistemi informatici incredibilmente complessi, materiali fantascientifici non possono nulla di fronte al fattore umano. Da oggi sarà bene ripeterselo tutti i giorni, un po' come il "memento mori" della saggia tradizione cattolica.
La seconda idea è legata a filo doppio alla prima, e riguarda l'esercizio delle virtù nelle situazioni di emergenza. Quando capita qualche cosa di terribile e di assolutamente nuovo e mai sperimentato – come l'inizio dell'affondamento della nave da crociera che comandi – ti trovi di fronte alla necessità di prendere decisioni rapide, dalle quali dipende la vita di molte persone, e innanzitutto la tua. Anche qui la tecnica della prevenzione del rischio può fare molto, stabilendo delle procedure, e obbligandoti ad allenarti a eseguirle. Ma fra una prova di evacuazione e una nave che sta affondando davvero passa una differenza enorme, praticamente la stessa che corre fra una teoria e la vita. Il capitano di una nave – è proverbiale - sa che deve lasciare per ultimo la sua creatura, pensando prima a tutti gli altri. Chi pensa che sia facile farlo è uno stupido. Però questo è ciò che ci si aspetta da colui che comanda una nave.
Come si può fare a prepararsi al momento terribile dell'emergenza assoluta? La nostra storia umana e religiosa ci dice che le virtù hanno bisogno di essere temprate dall'allenamento e dalla volontà, che bisogna inseguire tutti i giorni un habitus buono, una costante familiarità con il bene. E questo è un discorso che oggi è diventato impopolare non solo per i capitani delle navi, ma anche per gli economisti, gli operatori di borsa, i medici, e tutte le categorie che potete immaginare. Forse, un capitano che scappa prima degli altri ci fa paura perché ci fa capire quanto poco siamo ormai pronti a sacrificarci per gli altri, ovunque.
Terza riflessione: in questa tragedia del Concordia ci sono state moltissime persone che hanno agito in modo encomiabile, fino all'eroismo, attardandosi sulla nave e rischiando la morte o –chissà – addirittura trovandovela. E questo dimostra, ancora una volta, che il bene è possibile anche quando tutto intorno a te si rovescia, crolla, affonda, e magari ti senti afferrato dal timor panico e dalla massa urlante che spinge a mettere in salvo sé stessi, e buonanotte all'altruismo. Questo mistero che è l'uomo è davvero qualcosa di più profondo che un complesso di conoscenze tecniche sul salvataggio; è ben più di un fascio di muscoli, di vasi sanguinei e di umori interni attivati dall'energia corporea. L'uomo è la sua anima.
Quarta e ultima considerazione: anche nel ventunesimo secolo, nell'era del dibattito, del confronto, dell'assemblearismo e della democrazia come fatto sacro; anche in questo scenario abbiamo ancora bisogno di capitani. Quando c'è bisogno di decisioni rapide e sicure, di garantire il bene comune, di guidare una comunità verso la salvezza, ci vuole qualcuno che comandi, e che intenda il comando come servizio agli altri. Qualcuno che, facendosi ultimo, però si prenda la responsabilità di decidere. E' una lezione per le istituzioni laiche. Ma lo è anche per la stessa comunità cattolica. La quale un capitano – il Papa – ce l'ha. Un tipo di capitano che sulla barca di Pietro – come ogni pontefice – rimane sempre fino alla fine, costi quello che costi. Se poi l'equipaggio volesse anche aiutarlo, tanto meglio.
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