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In Italia il primo a importare il rap fu Jovanotti. Era la musica (si fa per dire) del sottoproletariato americano, di quelli che non sapevano nemmeno suonare uno strumento. Ora il rap italico è dilagato, anche per l'estrema facilità con cui si può comporre (si fa per dire) musica (si fa per dire) cosiddetta rap. Tant'è che il rapper (colui che fa rap) si è trasformato in trapper (trappolatore), visto che gli basta solo catturare l'attenzione.
Sembrano tutti fatti con lo stampino: tatuaggi fino agli occhi, abiti da operaio edile americano. Uno di essi, tal Anastasio, ha provato a uscire dal coro apponendo dei «like» («mi piace») sui social network a Salvini, Trump e Casapound. Indubbiamente si è fatto notare, ma apriti cielo. Lui si è giustificato così: «Ormai la destra fa la sinistra e viceversa. La destra oggi difende i lavoratori, la sinistra è diventata liberista, è un casino. Ho opinioni su fatti di cronaca a volte da una parte e a volte dall'altra, non mi sento di etichettarmi. Se uno dice una cosa giusta la condivido, che sia Salvini o Renzi. Guardo cosa si dice, non chi lo dice». Puro buonsenso, insomma. Ma forse il Nostro non ha capito in che cosa si è intruppato. L'arte (si fa per dire) pop, sia acustica che letteraria e figurativa, è egemonizzata dalla sinistra, la filosofia della quale è oggi post-marxista, dunque politicamente corretta. La fabbrica del suo pensiero è la cultura liberal americana. Che è giacobinamente nichilista. Sex, drugs and rock 'n roll deve essere il dogma degli artisti (si fa per dire) che da tale cultura ricevono gli imprinting. Se qualche artista (si fa per dire) di questo ambito crede, una volta arrivato al successo, di poter essere libero di esprimersi, non ha capito niente. Il suo pubblico si nutre di emotività, non di raziocinio: come lo ha creato, così può distruggerlo.
Ma come mai tutta la musica leggera, il cinema, la narrativa e il teatro (ma metteteci anche le altre arti figurative) sono egemonizzati dalla sinistra? La risposta è contenuta nel romanzo Il montaggio dell'esule (perché dissidente) russo Vladimir Volkoff, anni Settanta. E' la storia di una spia sovietica infiltrata in una importante casa editrice parigina. Il suo compito era pubblicare solo i libri che non parlavano male del comunismo. E indurre gli esordienti ad «aggiustare» le loro opere in senso politicamente corretto. Nel libro, un alto ufficiale del Dipartimento D (disinformazione) del Kgb dice chiaro: «Abbiamo già programmato il duemila, ormai non potranno più non seguire i nostri segnali di pista». In Italia, nel dopoguerra, fu più semplice: le due grandi forze politiche popolari si spartirono tutto, ma il Pci tenne per sé la «cultura». La Dc ragionava in termini di anni elettorali, il Pci in termini secolari. Infatti, quando spuntò la prima generazione che non aveva visto la guerra, fu il Sessantotto. La disseminazione capillare di circoli Arci che coprivano praticamente tutte le attività umane faceva il resto. Un ragazzotto senza arte né parte che sapeva solo suonare la chitarra ci trovava un palco per esibirsi. Il pop non richiede sforzo, non è come la musica classica o quella lirica che abbisognano di molto studio, esercizio continuo, autodisciplina e sacrificio. Infatti, nell'ambiente classico e lirico difficilmente si trovano scandali e trasgressioni, che sono, al contrario, la norma nel mondo del pop e del rock. Il successo improvviso non dà alla testa a un cantante lirico, mentre è facile vedere una rockstar annegare negli stravizi fino a, magari, morirci.
Un tipo umano del genere, insomma, è maggiormente (e perfettamente) permeabile ai messaggi politicamente corretti, che sono sempre slogan emotivi e superficiali. In quest'ambiente così «formato» non puoi azzardarti a usare, come ha osato fare Anastasio, il semplice buonsenso. Ti subissano. I colleghi e il (loro) pubblico. Ricordarsi l'esempio di Barilla. Colpirne uno per educarne cento.
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