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Formosa (nome dato dagli spagnoli) è un'isola meglio nota col nome autoctono di Taiwan. I più anziani tra noi la ricorderanno soprattutto per quel «Made in Taiwan» scritto sul retro di giocattoli o di altri oggetti in plastica importati. Fu la primissima di quelle «tigri asiatiche» che dagli anni Sessanta conobbero uno sviluppo economico e finanziario travolgente, oggi surclassato dalla Cina. Già, la Cina, cui Taiwan è troppo vicina.
Taiwan, venticinque milioni di abitanti, nel 1948 accolse i nazionalisti di Chang Kaishek che, dopo una lunga guerra contro il Giappone, avevano dovuto soccombere ai comunisti di Mao Zedong. Chang Kaishek fu tra i promotori della fondazione delle Nazioni Unite e alleato di ferro, col Giappone, degli Stati Uniti durante la Guerra Fredda. Dotata di un sistema politico democratico e presidenziale, Taiwan fu grande esportatrice soprattutto di componentistica e in gara col Giappone riguardo ai tumultuosi ritmi di crescita.
Ma con gli anni Settanta la Cina rossa si affacciò alla ribalta mondiale, dopo il lunghissimo e immane massacro interno dovuto alla politica del «Grande Timoniere». I «libretti rossi» coi pensierini di Mao invasero l'Occidente e sedussero parecchi giovani. Il maoismo degli eskimo e degli opuscoli tradotti in italiano nell'Albania rossa fece non pochi proseliti e, addirittura, la Cina divenne di moda, anche al cinema. Così, la Cina venne accolta nell'Onu e, per giunta, ebbe un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza.
Gli occidentali speravano che la sua presenza bilanciasse quella dell'Unione Sovietica, con la quale non era in buoni rapporti, ma in pratica si ottenne solo di paralizzare l'Onu nelle circostanze cruciali. Per giunta, si dovette dare alla Cina il contentino di escludere Taiwan dall'Onu, mossa vergognosa e vigliacca che ancora pesa sulla coscienza onusiana.
La Cina comunista pretendeva (e pretende) che Taiwan facesse parte del suo territorio, così come pretendeva (e ottenne) la restituzione di Hong Kong da parte degli inglesi. Per fortuna gli americani erano, sì, disposti a far trattare Taiwan come un'appestata in sede internazionale, ma non a rinunciare ad essa in caso di invasione cinese. Così, i cinesi rimasero a mordere il freno per anni, in attesa del momento buono. Che arrivò con la politica mista (e schizofrenica) del «comunismo di mercato».
Tutto l'Occidente fu invaso da prodotti cinesi, tutti volevano assicurarsi quell'immenso mercato, tutti si affannavano per offrire alla Cina su un piatto d'argento tutto quel che voleva. Anche la Santa Sede, per evitare ai cattolici cinesi guai peggiori, dovette dirsi disponibile a rinunciare alle relazioni con Taiwan. Prontamente, nel 2005 la Cina si dotò di una legge che le consentiva di invadere Taiwan in qualunque momento, per «difendere l'integrità dello stato».
Nel 1989, dopo la sanguinosa repressione studentesca di Tien-An-Men, la Ue aveva decretato un embargo sulla fornitura di armi alla Cina, embargo ribadito a maggior ragione dopo le minacce di invasione a Taiwan. Il viaggio dell'allora presidente italiano Ciampi e dell'allora ministro degli esteri Fini a Pechino fu caratterizzato dalla mancata visita alla cattedrale cattolica nella capitale cinese e da dichiarazioni favorevoli alla revoca dell'embargo sulle armi.
Almeno, però, su Taiwan i due stettero zitti. Non così Prodi nel 2006. Infatti, si espresse pubblicamente per una sola Cina. Oggi al comando italiano abbiamo i soliti dem (ennesimo nuovo nome dei comunisti) e i pentastellati, la cui simpatia «cinese» preoccupa gli Usa. Eh, la storia insegna che la storia non insegna nulla. Infatti, questa con la Cina si chiama sindrome di Monaco. Per ora la parte di Churchill tocca a Trump, ma anche Biden, nella sua nomination alla Convention democratica, sul tema non si è allargato più di tanto. Infatti, il deep state americano è per la tenzone, chiunque vinca le elezioni. Noi cattolici non abbiamo motivo per amarlo, questo deep state. Ma ricordiamo che furono le cannoniere americane a interrompere la persecuzione dei cristiani giapponesi.
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