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Nel 2012 si celebreranno i primi 50 anni dall’apertura del XXI Concilio Ecumenico della Chiesa cattolica, indetto da Giovanni XXIII nel 1962 e concluso sotto Paolo VI nel 1965. È molto difficile sintetizzare cosa abbia rappresentato questo (quasi) mezzo secolo di storia per la Chiesa e il cattolicesimo, sia in Italia, ove risiede Roma “capitale della cristianità”, sia nel resto del vasto mondo. L’espressione più acuta ci pare essere quella usata a suo tempo da Giovanni Paolo II e cioè “apostasia silenziosa”.
Infatti dopo 20 secoli di fede e di evangelizzazione, di istituzioni e monumenti innumerevoli ispirati al Vangelo, in pochi decenni, a partire dal Vaticano II, si registrano: l’abbandono in massa della Chiesa da parte dei battezzati (con migliaia di domande di sbattezzo ogni anno!!), la perdita quasi totale della fede, la distruzione della famiglia naturale fondata sul matrimonio indissolubile, la scomparsa dell’educazione al pudore, all’obbedienza, alla preghiera… Come è stato possibile tutto ciò, che manifesta una radicale mutazione antropologica, in neppure 50 anni? Gli effetti debbono avere una causa ad essi proporzionata. L’apostasia silenziosa di milioni di cattolici, per di più in tutto l’orbe, e lo sbandamento di numerosi sacerdoti e di interi ordini religiosi, non può spiegarsi solo con il laicismo e il razionalismo, con il potere delle lobby anticattoliche o con la visione edonistica della vita, tutte tristi realtà dilagate nel corso del Novecento.
Il teologo Brunero Gherardini, in un libro coraggioso (Concilio Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, s.i.p., 2009. Per richiederlo: tel/fax 0825.444415 e cm.editrice@immacolata.ws) mostra con grande chiarezza che l’apostasia postconciliare non deriva anzitutto da cause esterne alla Chiesa, ma da gravi deviazioni interne, deviazioni e ambiguità che qua e là affiorano nello stesso dettato conciliare. Certo lo “spirito del Concilio” di cui parlarono strumentalmente i novatori degli anni ’60 è andato molto al di là dei documenti votati e approvati dai Padri, e poi promulgati da Paolo VI. All’interno di documenti quali Sacrosanctum Concilium, Unitatis redintegratio, Nostra aetate, Dignitatis humanae e Gaudium et spes, emerge uno spirito ben diverso da quello a cui i medesimi documenti sembrano esplicitamente rifarsi quando citano il Magistero perenne e i Dottori della Chiesa.
Il tema sarebbe vastissimo e mi limito a 3 brevi esempi assai diversi tra loro, ma che mostrano con semplicità i paralogismi e le aporie conciliari. Prendiamo il documento sulla Liturgia: esso dichiara a più riprese il dovere di mantenere la lingua latina nel rito romano (SC 36 e 54). Cosa è avvenuto di questo passo conciliare? Lo spirito di aggiornamento che permea tutto il Vaticano II l’ha cancellato persino nelle menti di coloro che per anni hanno dichiarato di dover far applicare il Concilio? Da decenni si attende una risposta autorevole. La costituzione Dei Verbum afferma giustamente che S. Scrittura, Magistero della Chiesa e sacra Tradizione sono così strettamente legati «da non potere indipendentemente sussistere» (n. 10): Come è possibile allora asserire che tra i beni presenti nei fratelli separati c’è «la Parola di Dio scritta» (UR 3)?
Al n. 3 di Nostra aetate, documento che non comporta neppure una citazione magisteriale e tradizionale, si fa intendere che i musulmani adorano il vero Dio, benché rifiutino esplicitamente sia Cristo che lo Spirito Santo. Ecumenismo o sincretismo, si chiede rigorosamente Gherardini… Fermiamoci qui, invitando i lettori a procurarsi quanto prima il prezioso volume che è appoggiato inoltre da due autorevoli prefazioni a cura del vescovo di Alberga mons. Mario Oliveri e del Segretario della Congregazione per il Culto Divino, mons. Malcom Ranjith.
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