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Davvero molto profondo e illuminante, nonostante la brevità, il discorso di Benedetto XVI che ha preceduto l’Angelus di domenica scorsa, festa della Trinità. Diceva il medievale Riccardo di san Vittore che, essendo impossibile essere felici da soli, e dato che Dio è la felicità assoluta, è ragionevole pensare che Dio non sia in se stesso una sola Persona, bensì che sia una comunione amorosa di Persone. In modo simile e complementare, il Papa ha spiegato che Dio «Non vive in una splendida solitudine», bensì è una realtà di amore in cui «Tre Persone […] sono un solo Dio perché il Padre è amore, il Figlio è amore, lo Spirito è amore. Dio è tutto e solo amore, amore purissimo». E, come ogni Persona divina è Relazione sussistente, così (anche dal punto di vista della fisica), sia nel macrouniverso (i pianeti, le stelle, le galassie), sia nel micro-universo (le cellule, gli atomi, le particelle elementari), «In tutto ciò che esiste», ovviamente in modo diverso, «è in un certo senso impresso il 'nome' della Santissima Trinità, perché tutto l’essere, fino alle ultime particelle, è essere in relazione, e così traspare il Dio-relazione». Ma Benedetto XVI ha sottolineato (nella logica dei De Trinitate; si pensi per esempio, a s. Agostino) che è soprattutto nell’uomo che si rintraccia il rinvio al Dio Uno e Trino: «La prova più forte che siamo fatti ad immagine della Trinità è questa: solo l’amore ci rende felici, perché viviamo in relazione per amare e viviamo per essere amati». E, se nei discorsi di Pasqua il Papa aveva attinto dalla fisica, dicendo che l’uomo in comunione con Dio può portare «il giorno di Dio» nelle notti della storia e sperimentare una «nuova forza di gravità» (quella della verità e dell’amore), domenica, con una suggestiva analogia, tratta dalla biologia, ha aggiunto che «l’essere umano porta nel proprio 'genoma' la traccia profonda della Trinità, di Dio-Amore». In tal modo, Benedetto XVI non solo ha indicato (ovviamente in breve) un argomento in favore della ragionevolezza della Trinità, ma ha altresì esposto una teologia da cui ricavare indicazioni esistenziali cruciali per l’essere umano. In effetti, l’infelicità è una condizione di solitudine durevole e continuativa: è vero che abbiamo bisogno di momenti in cui stare da soli, ma un uomo che non intrattiene mai relazioni significative con alcuno è terribilmente infelice. Ci sono uomini soli che vivono in pace con se stessi, ma la loro è meramente una condizione di assenza di turbamento, di eliminazione delle possibili ferite che possono derivare dagli altri.
Tuttavia, se forse è abbastanza chiaro che essere amati da qualcuno (e da Qualcuno) è necessario per essere felici, invece è molto meno chiaro che venire amati non è una condizione sufficiente per la felicità, che ci sfugge se non imitiamo le Persone divine, che si amano reciprocamente e amano l’uomo, ci sfugge se non amiamo a nostra volta: dunque, per essere felici, anche noi dobbiamo amare anzitutto Dio, e, poi, gli altri. Ma l’incomprensione diffusissima e anche la difficoltà, che determina il fallimento di molti rapporti amicali, affettivi e coniugali, riguarda proprio l’amore, che non è solo e principalmente trasporto, attrazione, 'stare bene insieme' (tutte cose che possono sovente venir meno e su cui è errato incentrare i rapporti interpersonali), bensì consiste nel volere e cercare il bene dell’altro, nel donarsi, come fa quel Dio-Trinità che, lo ha ricordato il Papa domenica, è amore «che incessantemente si dona».
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