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«Ora si può, con qualche ragione, sperare in una amministrazione migliore». È come un lungo sospiro di sollievo quel sorriso con cui padre Thomas Chellan – ieri a Oreno di Vimercate per ritirare il premio «Defensor Fidei» del mensile Il Timone – commenta i risultati delle elezioni indiane e in particolare in Orissa.
Un incubo iniziato lo scorso 23 agosto e, che spera, dissoltosi con il voto di metà maggio. Quel giorno le squadracce dei nazionalisti indù si radunarono davanti al centro pastorale di Khadamal che padre Thomas Chellan dirige da anni. Meglio andarsene nonostante la polizia, già in allerta, assicurasse di controllare la situazione. Inutile la fuga nella notte fino alla casa di un amico nel villaggio di Nuagaon, in campagna: padre Thomas viene scovato anche lì e per un giorno intero – nelle mani di 50 fanatici inferociti – seviziato con bastoni, cosparso di cherosene con la minaccia di dare fuoco ai vestiti. Poi, mezzo denudato, fatto inginocchiare in piazza. Un incubo, che ha lasciato segni indelebili sul corpo di questo sacerdote di 57 anni minuto, gentile, e ancora sorprendentemente gioioso.
«Si può sperare – spiega – perché il Biju Janata Dal del governatore uscente Navin Patnaik, ha superato nettamente i nazionalisti del Bjp. Patnaik aveva più volte protestato per quanto avvenuto nel distretto di Kandhamal, in Orissa, ma era ostaggio della storica alleanza con il Bjp. E poi, a livello federale, il Congresso ha registrato una massiccia vittoria: penso che gli elettori abbiano voluto difendere in ogni modo la laicità dello Stato contro il fondamentalismo indù. L’India è un grande Paese in cui indù, musulmani, buddisti e cristiani da secoli vivono in pace e vogliono continuare a farlo.
Sajan K. George, presidente del Global council of indians christians, ha chiesto al governatore dell’Orissa giustizia per i cristiani. Come concretamente?
Per prima cosa bisogna ricostruire un’atmosfera pacifica nei villaggi cristiani: ora si vive nel terrore, nel timore che i vicini di casa si rivelino inaspettati aguzzini. Occorre ricreare una possibile convivenza in primo luogo ristabilendo una amministrazione locale con polizia, ufficiali pubblici. Essere certi che se io non ti attacco tu non mi attacchi. In secondo luogo creare occasioni di dialogo, di confronto, di riconoscimento reciproco. Molti villaggi cristiani nel distretto di Kandhamal sono deserti, le case distrutti, gli abitanti nei campi profughi o fuggiti in altri Stati. Chi è rimasto spesso è costretto a conversioni forzate all’induismo, anche se nell’intimo resta cristiano. In questa situazione noi sacerdoti non riusciamo ad essere presenti, a svolgere il nostro servizio di pastori in queste comunità.
Molti però sostengono che in queste elezioni l’estremismo è stato sconfitto. Ne conviene?
Non posso affermare che siano stati definitivamente sconfitti perché sono ancora là e il Bjp governa ancora in alcuni Stati indiani. Non sono sconfitti e credo che adesso cercheranno di attuare il loro programma politico agendo come se fossero un partito secolarizzato.
A Pasqua l’arcivescovo di Cuttack Bhubaneswar, Rapahel Cheenath, ha rivolto un vigoroso appello in difesa della laicità dello Stato, sempre più a rischio. La più grande democrazia del mondo vede minate le basi della convivenza?
In India convivono da sempre culture e religioni diverse: noi viviamo così e non ci sentiamo per questo stranieri. I missionari cristiani potevano andare negli Stati a maggioranza indù senza problema, i rapporti fra le famiglie di religione diversa sono generalmente buone. Chi ha fomentato le violenze? Persone con mire politiche, che vivono segregate dagli altri e istigano gli altri indù: è una minoranza che ha creato questa situazione.
Subito dopo l’aggressione ha dichiarato: «Cristo mi sta guarendo: non ho odio né amarezza. Sono pronto a servire chi mi ha colpito». Oggi ripeterebbe queste parole?
Il cristianesimo, in India come nell’antica Roma, è nato dalle persecuzioni. Allora non c’erano i media a raccontarle, ma la Chiesa è cresciuta. Padre Thamas Chellan apre un libro e indica la pagina con la lista dei 75 cristiani uccisi fra agosto e dicembre. «Abbiamo imparato che il sangue dei martiri è il seme della Chiesa. Ora mi è stato chiesto di tornare in Kerala, il mio Stato di origine. Ma noi cristiani resteremo in Orissa e non rinunceremo alla fede».
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