LE PESSIME LINEE GUIDA PER SBARAZZARSI DELLE CHIESE DISMESSE
Il Pontificio Consiglio della Cultura, presieduto dal cardinale Ravasi, stabilisce che le chiese ''inutili'' diventino musei e centri sociali oppure siano vendute
di Stefano Fontana
Cosa fare delle chiese "dismesse"? Il Pontificio Consiglio della Cultura, presieduto dal cardinale Ravasi, ha pubblicato delle Linee-guida per affrontare questo fenomeno. Calo della popolazione - dicono le Linee - invecchiamento dei centri storici, chiese non parrocchiali non più sostenute dalle realtà che le avevano costruite e mantenute, diminuzione del clero, sepecolarizzazione … un insieme di cause pone il problema delle chiese non più sede di uso liturgico. Come evitare che diventino discoteche o pizzerie? Questa è, in sintesi, la problematica.
QUALE VISIONE TEOLOGICA?
Il Pontificio Consiglio prende atto di questa situazione, dandola per scontata e irreversibile, e quindi, dopo aver dichiarato che una chiesa non esaurisce la sua funzione solo come sede liturgica, ma ha anche altre valenze, propone un dialogo con la società civile per la destinazione appunto "sociale" delle chiese.
Tutte le questioni pratiche che la Chiesa deve affrontare, compresa questa delle chiese "dismesse", dipendono da una visone teologica. Se compito della Chiesa è evangelizzare il mondo e rinnovarlo con la forza della morte e resurrezione di Cristo, la diminuzione dei "luoghi" in cui questo mistero cosmico e miracoloso avviene dovrebbe angosciare. E dovrebbe portare a chiedersi da dove nasca questa secolarizzazione che non fa più andare a Messa le persone. Perché il problema sta lì, e non nel calo demografico oppure nell'invecchiamento dei centri storici, cause concomitanti ma non certo fondamentali nella dismissione delle chiese. Se, invece, compito della Chiesa è considerare il mondo come altare, i poveri come sacramento, la solidarietà sociale come carità, l'ingiustizia sociale come causa del peccato e non il peccato come causa dell'ingiustizia … allora le chiese servono a poco o non servono addirittura e il fenomeno della secolarizzazione è da vedersi come positivo e frutto dello stesso cristianesimo. Sarebbe il cristianesimo stesso a pretendere che le chiese siano sostituite da strutture sociali o culturali.
RESA INCONDIZIONATA ALLA SECOLARIZZAZIONE
Oggi il proselitismo è condannato, l'osservazione del precetto domenicale è considerata superata, si costituiscono celebrazioni domenicali senza Messa anche in città con un'ampia presenza di sacerdoti e si aspetta il sinodo sull'Amazzonia per poterlo fare in forma autorizzata e sistematica. Si capisce quindi che la preoccupazione non è cosa facciamo delle chiese dismesse, ma cosa facciamo delle chiese. Ci sono tante chiese dismesse, a parte motivi storici vari, perché non sappiamo più rispondere alla domanda a cosa servano le chiese non (ancora) dismesse.
Una volta accettata la secolarizzazione come un fenomeno irreversibile e positivo, addirittura frutto del cristianesimo, non si vede perché ci si dovrebbe preoccupare della scomparsa delle chiese, esito di una secolarizzazione coerentemente compiuta fino in fondo. Tale scomparsa è da vedersi come un bene, come una uscita verso il mondo, come simbolo di una Chiesa povera che si fa mondo, una Chiesa che non ha privilegi né presunzioni di superiorità e che non vuole sovrapporre al mondo la propria ideologia eucaristica, come se le sorti del mondo dipendessero dalla consacrazione del Pane e del Vino fatta da un inutile sacerdote, una Chiesa che riconosce finalmente che Dio si rivela nell'umanità e, quindi, che fondare un sindacato o una associazione contro la tratta delle donne è più importate che celebrare la Messa davanti a un pugno di persone, dato il calo demografico e l'invecchiamento dei centri storici. Vorrebbe dire non riconoscere che il mondo è adulto e capace di sé e che il mondo e non la Chiesa è il luogo dell'auto-comunicazione di Dio come dice la teologia che oggi va per la maggiore.
UNA CHIESA CONFUSA CON IL MONDO
Ma almeno le chiese non diventerebbero pizzerie, dice qualcuno insieme con le Linee guida del Pontificio Consiglio della Cultura. Diventerebbero centri sociali, luoghi di cultura, teatri amatoriali, sedi dell'associazionismo. Ma in questo modo il percorso di una Chiesa che si fa mondo è ancora più evidente. La carità che si fa solidarietà, la pace di Cristo che diventa pacifismo, la liturgia che diventa rappresentazione teatrale, l'amore di Cristo per i Piccoli che diventa scuola di danza, la comunità ecclesiale che diventa assemblearismo, la fede che diventa religione civile, l'unica salvezza in Gesù Cristo che diventa riunione inter-religiosa. Si dice continuamente (sbagliando) che la fede cristiana non è un'etica e poi la si riduce ad etica sociale utilizzando gli spazi liturgici come luoghi di aggregazione sociale e culturale.
In una diocesi italiana un lascito ha conferito al vescovo la proprietà di una cappella in centro città ormai in disuso e abbandonata. Il vescovo non ha mai pensato nemmeno per un istante di farne un centro sociale, ha subito pensato di restituirla al culto e farne un centro di spiritualità per giovani. Il compito di ogni vescovo e di restituire ogni chiesa al culto e alla celebrazione eucaristica. Niente di meno può soddisfare, né niente di meno può essere programmato dal Pontificio Consiglio della Cultura.
PAPA FRANCESCO E GIOVANNI PAOLO II
Dopo la pubblicazione delle Linee guida [...] anche papa Francesco ha confermato l'idea di venderle per aiutare i poveri. Il suo intervento ha fatto ricordare che nella Sollicitudo rei socialis, l'enciclica del 1987 che commemorava la Populorum progressio, Giovanni Paolo II aveva detto qualcosa di simile: "Di fronte ai casi di bisogno non si possono preferire gli ornamenti superflui delle chiese e la suppellettile preziosa del culto divino; al contrario potrebbe essere obbligatorio alienare questi beni per dar pane, bevanda, vestito e casa a chi ne è privo" (n. 31).
Le indicazioni di papa Francesco e di Giovanni Paolo II meritano comunque qualche riflessione, perché la questione presenta forse anche altre sfaccettature che è bene evidenziare.
I poveri esistevano anche quando erano state costruite le chiese ora in dismissione, o quando si collocavano nelle chiese gli ornamenti e le suppellettili preziose che ora si vorrebbe vendere. Però la Chiesa di allora non ha impedito queste costruzioni e questi collocamenti per devolvere le relative somme ai poveri, perché ai poveri ci ha sempre pensato in altro modo, ossia con la gamma di attività di solidarietà a sfondo religioso di cui quella società era intessuta, e perché tutti gli uomini, poveri compresi, hanno soprattutto bisogno di Dio.
I POVERI VOGLIONO E HANNO BISOGNO ANCHE DELLE CHIESE
Nessun monastero o convento ha mai pensato di costruire solo la mensa e la foresteria e non prima di tutto la chiesa o di devolvere le risorse per costruire la chiesa al bilancio della mensa o della foresteria. Anche perché, spesso, i soldi per le suppellettili preziose provengono non dai ricchi ma proprio dai poveri. E tante chiese e cappelle oggi sconsacrate e "dismesse" sono sorte anche col contributo dei poveri e a loro finalizzate. Spesso sono state costruite da confraternite religiose dedite a curare qualche forma di disagio, o erano cappelle di ospedali, o di monti di pietà, o di rifugi di mendicità, o di opere pie. Il rapporto delle chiese con i poveri è molto complesso e non è positivo presentare la conservazione delle chiese "dismesse" come un furto ai danni dei poveri.
D'altro canto l'idea di vendere le chiese e di dare il ricavato ai poveri, può servire a coprire altre carenze della Chiesa stessa. Le chiese in questione sono spesso un peso, il che diventa il motivo principale della vendita mentre la donazione del ricavato ai poveri risulta essere lo scopo strumentale.
Inoltre la Chiesa di oggi spreca molte risorse in mille altri modi e potrebbe cominciare da lì per ottenere risorse da dare ai poveri, piuttosto che dalla vendita delle chiese o delle suppellettili preziose. Infine, la soluzione manifesta una rassegnazione più che un atto di coraggio. Rassegnazione davanti alla secolarizzazione considerata irreversibile e rassegnazione davanti agli scarsi risultati dell'impegno della Chiesa per la sua dottrina sociale. Ai poveri la Chiesa dovrebbe pensare soprattutto con l'impegno di tutti i suoi figli per incarnare i principi della Dottrina sociale della Chiesa e non con la vendita di chiese e suppellettili preziose. Puntare sul secondo fronte significa rassegnarsi al fallimento del primo.
Le chiese dismesse e sconsacrate vanno sistemate e riconsacrate. Sono convinto che molti poveri parteciperebbero volentieri all'impresa.
Titolo originale: Chiese dismesse, il problema è la fede che non c'è. Vendere le chiese per i poveri. Ma le hanno costruite loro...
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana, 19-21 dicembre 2018
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