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« Torna agli articoli di Andrea
Diventa sempre più difficile celebrare degnamente il 4 novembre, la festa delle Forze Armate che rischia di anno in anno di venire soffocata dalla manovra a tenaglia scatenata dalla retorica e dal linguaggio politicamente corretto. Elementi indispensabili a quanto pare nella nostra società ma che rischiano di snaturare il significato del 4 novembre che è prima di tutto il giorno della "Vittoria". Già, forse lo abbiamo dimenticato offuscati come siamo dalla rimozione di una parola necessariamente legata alla "guerra" (altro concetto che abbiamo rimosso dalle nostre coscienze sostituendolo con ridicole espressioni quali "missione di pace" o addirittura "operazioni a protezione della popolazione" come ha fatto la Nato nel recente intervento i Libia) ma oggi si ricordano i 93 anni dalla vittoria dell'Italia nella Prima guerra mondiale. Un conflitto nel quale le perdite italiane raggiunsero le 650mila unità, quasi tutti soldati. Per capirci oltre 200mila in più dei morti italiani registrati nel conflitto del 1940-45 dove morirono 313mila militari e 130mila civili.
Numeri impressionanti non solo in termini assoluti ma anche per quanto concerne la percezione che abbiamo oggi delle perdite in guerra in una società che fatica a tollerare i 45 caduti sofferti in Afghanistan e i 33 in Iraq nell'arco di dieci anni (2002-2011) dei quali circa un terzo morti per cause diverse dal fuoco nemico.
L'iniziativa del ministro della Difesa, Ignazio La Russa, di far ripercorrere alla salma del milite ignoto il tragitto ferroviario che nel 1921 portò i resti di quel soldato da Aquileia all'Altare della Patria, a Roma, richiama quel conflitto sanguinoso ma la parola "vittoria" sembra scomparsa, cancellata quasi come fosse una vergogna, da tutti i conflitti che i nostri soldati hanno combattuto in questi anni. Per cosa combattere quindi se non per la vittoria? Eppure, con ruoli a volte di rilievo a volte marginali, i militari italiani hanno vinto con gli alleati la Guerra del Golfo del 1991, la guerra in Bosnia nel 1995, in Kosovo nel 1999 e quella libica proprio in questi giorni. Si può discutere sull'opportunità di quei conflitti, ci si può perfino chiedere se abbiamo combattuto dalla parte giusta o più funzionale ai nostri interessi ma non c'è dubbio che i nostri militari abbiano vinto quelle guerre.
Nessuno però le ha celebrate né tanto meno le ha chiamate con il loro nome. Vittoria, guerra, combattimenti, nemico... Parole politicamente scorrette rimosse dal nostro vocabolario e dai comunicati del Ministero della Difesa nei quali gli aggressori hanno sostituito il nemico, i nostri soldati non lanciano più offensive ma "supportano le forze afghane", non uccidono ma "neutralizzano la minaccia", non sbaragliano ma "rispondono al fuoco in modo limitato e proporzionale".
Forse è proprio questa la frase più assurda del linguaggio politically correct applicato alla guerra e divenuto una nota di linguaggio anche nella definizione delle regole d'ingaggio. Eppure l'arte militare insegna da sempre che la forza, la potenza di fuoco, va concentrata sul nemico per schiacciarlo e ottenere la vittoria.
Rimuovere questi concetti significa minare il senso stesso dell'esistenza delle forze armate con il risultato, oggi sotto gli occhi di tutti, che da più parti si chiede di fronteggiare la crisi finanziaria tagliando prima di tutto le spese per la Difesa. Quasi come se lo strumento militare fosse un optional riservato ai Paesi ricchi, un lusso da azzerare in tempi di crisi.
Non si tratta di una cultura diffusa solo in certi ambienti pacifisti e "pacifinti", ma in tutto l'ambito politico, incapace di disegnare un credibile modello di Difesa e di definire cosa chiedere ai militari per realizzare uno strumento attagliato alle necessità ma capace di applicare tagli che decurtano i fondi per addestramento, manutenzioni e nuovi mezzi trasformando così le forze armate in uno "stipendificio" con capacità sempre più ridotte.
I militari godono oggi di una credibilità riconosciuta da tre italiani su quattro, così dicono i sondaggi, ma per conseguire questo risultato forse abbiamo snaturato il lavoro del militare trasformandolo in un factotum, in un ibrido che deve ogni giorni giustificare la sua esistenza spalando la neve va Milano, raccogliendo i rifiuti a Napoli oppure facendo la guardia a edifici pubblici o le ronde nelle città oltre a intervenire in ogni pubblica calamità facendo il lavoro che altre organizzazioni pubbliche non riescono a fare nonostante le ingenti risorse finanziarie loro assegnate.
E quando i militari vengono mandati in guerra meglio nasconderli con il velo della censura o raccontare che costruiscono scuole, portano doni e caramelle ai bambini, meglio se orfani che fa più "missione di pace". Netturbini, vigilantes, muratori, babbi natale da mostrare a ogni occasione ma guerrieri da nascondere all'opinione pubblica.
Ora che la guerra libica è finita dai comandi militari cominciano a filtrare notizie ufficiali sul ruolo dell'Italia. Dati importanti che dicono che i nostri jet hanno lanciato 714 bombe e missili contro 600 obiettivi in quasi 2.500 sortite per oltre 8 mila ore di volo. Hanno ammazzato di certo molti soldati e miliziani nemici conseguendo la vittoria, come accade in tutte le guerre. Forse è per questo che questi numeri non sono usciti dalla bocca di ministri o politici.
I protagonisti di questo 4 novembre sono loro, piloti, avieri e marinai che hanno vinto una guerra che l'Italia (non a torto sul piano politico) un po' si vergogna di aver combattuto ma che i militari hanno combattuto con successo e onore. E protagonisti della ricorrenza di quest'anno sono anche quel pugno di carabinieri del Gruppo Intervento Speciale dei carabinieri e di Incursori della Marina che ieri mattina a Herat con un blitz perfetto hanno liberato 18 civili, inclusi tre italiani, presi in ostaggio da un commando di sette talebani. Le forze speciali italiane, con coraggio e professionalità, hanno liberato gli ostaggi, rimasti incolumi. Hanno anche ucciso tutti i terroristi. In altri tempi e in altri Paesi dovrebbe essere un merito ma forse è proprio per questo che invece di celebrarli pubblicamente il ministro della Difesa ha preferito non fornire molti dettagli evitando di citare persino i reparti impegnati. Come se gli italiani non sapessero che in Afghanistan c'è la guerra e anche i nostri soldati combattono in prima linea.
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