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« Torna agli articoli di Andrea Lorenza Nini

In questi giorni di pieno dibattito elettorale al cui centro, a torto o a ragione, ci sono le donne, è passato in sordina un evento di significativa importanza: il 6 gennaio, infatti, si è svolta la quinta Giornata Mondiale contro le mutilazioni genitali femminili organizzata dalle Nazioni Unite. Mutilazioni genitali: il nome fa gelare il sangue nelle vene e sembra distante dal nostro evoluto e avanzato Occidente (anche se ormai è da chiedersi se noi occidentali siamo davvero libere...).
Eppure oggi, solo in Italia, le donne che hanno ricevuto un trattamento del genere sono ben settantamila. Se ne potrebbe parlare in maniera soft, riferendosi solamente al perché sociale, alle origini storiche e alle statistiche ma ciò tenderebbe a sminuire queste gravi violenze, a ridurle a semplici fattori culturali. Il punto di partenza è, indubbiamente, l'atavica volontà maschile, ancora viva in società tribali organizzate in gerarchie patriarcali, di sottomettere sessualmente la donna, umiliandola in un corpo che non le permette di trasgredire e neanche di sognare lontanamente l'emancipazione (o presunta tale, ma questa è un'altra storia!). Per analizzare nello specifico il problema, bisogna partire da un distinguo, già effettuato in Italia negli anni novanta dall'Organizzazione Non C'è Pace Senza Giustizia che, da quasi vent'anni, denuncia il problema e si batte per la libertà delle donne con una serie di campagne ed eventi. Sono stati così categorizzati tre tipi di "interventi" - se tali li si può definire - in una scala basata sulla gravità dell'amputazione e del trauma psico-fisico.
Quella di minore entità è l'al-sunna, vale a dire la circoncisione femminile. Essa consiste nell'asportazione della punta del clitoride, con la fuoriuscita di sette gocce di sangue. In quanto rito di purificazione meno doloroso e castrante, l'al-sunna è stato visto da molti antropologi e sociologi come il compromesso tra tradizione e modernizzazione, partendo dal presupposto che l'indottrinamento occidentale non può far altro che accrescere il senso di attaccamento alle proprie tradizioni. Ma questa non sembra certo la soluzione ottimale, perché è da combattere il principio dell'inferiorità femminile che, anche in questo caso, verrebbe rimarcato, seppur in maniera in più blanda.
Come forma più diffusa nel mondo, abbiamo, poi, l'escissione (al-wasat), che consiste nella totale asportazione del clitoride e delle piccole labbra. Infine, pratica più mostruosa e degradante, figura l'infibulazione. Oltre alla circoncisione e l'escissione, vengono anche recise le grandi labbra. Poi viene la cauterizzazione, cioè la bruciatura dei residui con un particolare strumento ed, infine, la vulva viene cucita, lasciando aperto solo un forellino per la fuoriuscita delle urine e del sangue mestruale. Ma, sebbene tutto ciò sia una vera e propria sevizia, nelle società in cui si pratica, essa viene percepita come una vera e propria necessità per la purezza e l'integrità morale delle bambine (perché parliamo di bambine, per lo più dai due ai quattordici anni) che la subiscono. La cosa paradossale è che per loro l'infibulazione rappresenta il diventare donna, in un gioco che le priva proprio di ciò che la natura ha dato loro in quanto donne. Generalmente è una festa: le madri annunciano l'evento alle proprie figlie, che vengono portate, in piccoli gruppi, in casa di una mammara-stregona (come definirla?) che le amputerà per sempre. Alle ragazzine viene spiegato che non devono piangere, perché questo porterebbe disonore alla famiglia e il padre se ne vergognerebbe. Dopo la dolorosissima operazione, effettuata con coltelli arrugginiti, pezzi di vetro o di legno, sono costrette all'immobilità per giorni e giorni, finché (se si è fortunate e non si presentano infezioni) la ferita non è cucita. Tutto questo si sopporta con rassegnazione: altrimenti, si sarebbe nient'altro che un'emarginata sociale, una donnaccia, e non si troverebbe marito. Eppure, anche la vita matrimoniale, che altro può essere se non il continuo di questa sofferenza? Non basta infatti la frigidità sessuale alla quale sono ovviamente condannate: la prima notte di nozze le attende la deinfibulazione (la recisione della chiusura da parte dell'uomo che darà così prova di indubbia virilità), poi ad ogni parto le attenderà il rischio di un soffocamento del nascituro (ed un'altra miriade di sofferenze) o di morte, e quando tutto questo sarà finito non sarà abbastanza: si dovrà reinfibulare e così via.
Come detto, l'usanza delle mutilazioni risale a tempi antichissimi, precedenti le religioni monoteistiche. Il grande storico greco Erodoto (V secolo a.C) parla già di popoli che praticano questi interventi e l'esercizio sembra risalire ad un'antica credenza per la quale il clitoride, se non reciso, crescerebbe fino a diventare un pene, portando così a rapporti di natura lesbica ed alla masturbazione. È da queste credenze, poi evolutesi, che - seppur condannate da Ebraismo e Cattolicesimo (religioni per le quali è un abominio contro l'integrità del corpo voluta da Dio), e più recentemente anche dall'Islamismo (in quanto nel Corano non vi è alcun riferimento a questa pratica) - le mutilazioni genitali continuano ad esistere in molti paesi dell'Africa, del sud-est asiatico e della penisola arabica, interessando, per lo più società di religione islamica (nei cui dogmi la sottomissione femminile è costantemente rivendicata) ma non solo.
Da ricordare, infine, che l'infibulazione non è una pratica lontana e distante che nulla ha a che vedere con noi: moltissime sono le operazioni clandestine in Italia ed è nostro dovere far a sapere a queste donne che non sono costrette a far patire il medesimo trattamento alle proprie figlie, che in Italia esiste una legge severissima contro questo reato e che ci si può ribellare ad un sistema che le umilia nel profondo.
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