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D'improvviso la parola "identità" - che da tempo viene evocata con ostilità (se non con disprezzo) ed è considerata sospetta di xenofobia e addirittura di razzismo - torna ad essere buona.
E' accaduto ieri su "Repubblica". A pagina 17 si poteva leggere questo titolo: "La rabbia delle famiglie arabe: 'Non date i nostri figli ai cristiani' ". Si parla del problema dell'affido di minori provenienti da famiglie immigrate. A fianco dell'articolo c'è un commento di Chiara Saraceno, grande sacerdotessa del "politically correct".
In questo caso la Saraceno fa una strenua difesa dell'identità. Spiega che per "un bambino che deve essere allontanato dalla sua famiglia per essere accolto temporaneamente da un'altra", oltre al trauma e alle questioni connesse alla nuova situazione, si pone anche il problema dell' "identità del minore coinvolto".
La Saraceno afferma: "la lingua madre, la cultura del gruppo di appartenenza, la religione fanno parte di questa identità... Prima che di un diritto dei genitori a che il figlio/a non venga collocato in affidamento presso famiglie di etnia e/o religione diversa dalla propria, è un diritto del bambino alla propria continuità identitaria".
Addirittura parla di "etnia", cosa che - se evocata per noi italiani - come minimo costa l'accusa di etnocentrismo, se non peggio.
VALORI DA DIFENDERE, MA SOLO PER GLI IMMIGRATI
Non entro nel merito del problema degli affidi, ma viene da chiedersi: l'identità, l'etnia e la continuità identitaria sono valori da preservare e difendere solo quando si parla di immigrati?
Perché quando si parla degli italiani, dei nostri figli e del nostro Paese, diventano categorie deteriori considerate con biasimo ed enorme sospetto?
Il Giornalista Collettivo e l'Intellettuale Collettivo non celebrano ormai da tempo il cosmopolitismo che spazza via le identità (nazionali, etniche e religiose) facendoci "cittadini del mondo" sulle note di "Imagine" di John Lennon? Ricordate? "Imagine there's no countries... And no religion too"...
Dopo mesi e anni di retorica antinazionale e anti-identitaria si scopre che gli immigrati hanno diritto alla "continuità identitaria". E gli italiani no?
Oltretutto, sollevando questo problema (che è vero), si scopre che l'immigrazione non è affatto una banale festicciola cosmopolita e buonista dove tutti si abbracciano e si sentono identici figli dei fiori, come la narrazione ufficiale ha ripetuto fino allo sfinimento, ma pone colossali problemi relativi alla convivenza in Italia di diverse identità culturali, religiose ed etniche che vogliono restare tali.
LA QUESTIONE IDENTITARIA È CENTRALE
Sempre ieri su "Repubblica" è uscito un altro articolo sorprendente, del tutto fuori linea rispetto ai dettami del pensiero unico e alla predicazione del Giornalista Collettivo.
Ma il suo autore - Alberto Asor Rosa - può permetterselo per l'autorevolezza del suo nome nel campo della cultura letteraria e nel mondo intellettuale della Sinistra italiana.
Asor Rosa prende di petto una decisione del Miur, il ministero dell'Università e della Ricerca scientifica guidato dal ministro Fedeli.
Per i "Progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale" che concorrono ai finanziamenti - dice il ministero - "la domanda è redatta in lingua inglese" e solo se si vuole "può essere fornita anche una ulteriore versione in lingua italiana".
Cosicché "l'immensa mole della ricerca scientifica universitaria italiana" argomenta Asor Rosa "per esprimersi ed essere riconosciuta nella sua validità, deve esprimersi, per farsi riconoscere, in lingua inglese".
Il critico ironizza su questa stupefacente prescrizione e ne contesta la validità non solo per la ricerca in campo umanistico-letterario, ma anche per le altre discipline, scientifiche, tecniche o giuridiche.
Perché infatti si dovrebbe sostituire la nostra lingua nazionale con l'inglese in un atto pubblico di questo genere?
Per facilitare eventuali commissari che non conoscono l'italiano? Ma in questo caso - suggerisce Asor Rosa - si sarebbe dovuto prescrivere l'opposto: la domanda va fatta in italiano (come sarebbe ovvio) ed eventualmente integrata da una versione nella lingua più attinente alla ricerca.
LA LINGUA RAPPRESENTA UNA CULTURA
Sembra una questione banale, ma non è così. C'è in gioco molto. E' il sintomo di una subalternità culturale nefasta. La lingua rappresenta infatti una cultura e un'identità nel mondo e nella storia.
Asor Rosa sottolinea che "una lingua è uno strumento di informazione e di comunicazione", ma - aggiunge - "è anche uno strumento identitario, anzi lo strumento identitario più possente che esista. Ossia: uno è la lingua che parla. Se non la parla, non la legge e non la scrive più, l'identità va a farsi benedire. E, naturalmente, se, come penso, il fenomeno va generalizzandosi, è evidente che il rischio è ancora maggiore".
Si può essere d'accordo o no con Asor Rosa (io sono d'accordissimo), ma di certo questo è un perfetto ragionamento "identitario" di quelli che - se fossero formulati da un Matteo Salvini o da una Giorgia Meloni - verrebbero fulminati con disprezzo dalla pubblicistica dominante come "nazionalisti", provinciali e "sovranisti".
Asor Rosa per una vita ha studiato la nostra letteratura e la nostra cultura nazionale e conosce le conseguenze (anche politiche) di una colonizzazione culturale che può portare alla disintegrazione dell'identità italiana. Non a caso il suo articolo ha un titolo insolito per "Repubblica", ovvero: "La ricerca succube dell'inglese".
I tempi sono tali che bisogna essere grati ai vecchi intellettuali provenienti dal marxismo come Asor Rosa per questo semplice ragionamento di buon senso. Speriamo che faccia riflettere.
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