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« Torna agli articoli di C
Sul numero di gennaio-febbraio 2012 di «Vita e Pensiero», la rivista dell'Università Cattolica, il consueto Focus di approfondimento è aperto da un articolo di Tony Blair sulla Cina. L'articolo, già pubblicato dal «Washington Post», è stato anticipato qualche giorno fa sulla «Stampa». Blair, ex premier laburista inglese, è uno strano cattolico, ufficialmente convertitosi solo dopo la sua uscita dalla scena politica ma favorevole alle nozze gay (in programma nell'attuale governo conservatore Cameron) e anche (se non lui, almeno la moglie Cherie, nata cattolica) all'aborto. La sua Tony Blair Faith Foundation (dove Faith sta per «fede») ha promosso corsi in partnership con l'Università di Pechino sul tema fede e globalizzazione. L'articolo che compare su «Vita e Pensiero» elogia l'«apertura alla religione da parte del governo cinese, apertura complessa ma in aumento». In particolare, «il governo di Pechino sta deliberatamente promuovendo una ripresa del confucianesimo», il quale «rappresenta la fede intesa come un valore, ovvero la negazione del sé a vantaggio degli interessi degli altri». In effetti – diciamo noi - lo faceva, ai bei tempi dell'Urss, anche Stakhanov, pur senza essere confuciano.
Ma Blair non pare sfiorato dall'idea che la religio instrumentum regni possa essere un'antichissima pratica riesumata dal governo comunista cinese per dirottare a suo vantaggio quel che non riesce a estirpare. No, anzi, per lui il governo cinese va incoraggiato dall'Occidente, perché «il modo in cui la Cina inquadrerà il suo percorso verso una società armoniosa non sarà soltanto d'interesse a livello mondiale, ma anche materia che possiamo studiare e da cui possiamo imparare». Addirittura. Ma l'entusiasmo di Blair trabocca: «E' soprattutto questa richiesta di una società armoniosa (noi diremmo onesta o giusta) che impegna la leadership cinse rispetto alla religione». La prova: «Sono passati soltanto tre anni da quando Hu Jintao, presidente cinese e segretario del Partito comunista, ha dichiarato al Politburo di Pechino: "Dobbiamo sforzarci nell'unire figure religiose e credenti (…) per costruire una società prospera e a tutto tondo, accelerando il passo verso la modernizzazione e il socialismo"».
Dunque, è la costruzione del socialismo l'obiettivo, come al solito, ma Blair pare non avvedersene. La rivista dell'Università cattolica ha ritenuto opportuno, perciò, riempire il resto del Focus con due scritti, uno di Rodney Stark e uno di Bernardo Cervellera, così da lasciare la bocca buona al lettore realmente cattolico. Stark informa, con la consueta precisione, che oggi i cristiani in Cina sono sui settanta milioni, e aumentano. Cervellera ci dice che i battesimi si susseguono con l'impressionante cadenza di 150mila all'anno. E che «tale sviluppo della fede avviene nonostante gli ostacoli posti dal regime» (il corsivo non è mio). Che per sicurezza «proibisce l'educazione religiosa ai minori di 18 anni». I cinesi, stufi del materialismo confuciano, poi marxista e ora capitalista selvaggio, si volgono sempre più di frequente alla «fede in un Dio fatto uomo, una persona storica», che a loro «appare più appassionante e ragionevole dei miti taoisti e buddisti».
Ma in Cina «due cose sono rimaste invariate: il controllo sociale garantito dal monopolio del Partito comunista e il controllo sulle religioni». I cristiani sono incoraggiati quando fanno assistenza e beneficenza senza oneri per lo Stato, ma guai a loro se provano a evangelizzare. Per il resto, le cose sono note: laogai, campi di rieducazione ideologica, preti e vescovi spariti e di cui non si sa più nulla. Se c'è una novità in campo religioso è semmai, l'inedita alleanza tra dissidenti e cristiani: i primi vanno sempre più scoprendo che il fondamento dei diritti umani sta nel cristianesimo. Per questo «il terrore del Partito» è che «la religione divenga il collettore di tutti gli scontenti». Come fu per la Polonia. La Cina, da cui «avremmo da imparare», in realtà ha imparato e impara. Da noi, come al solito.
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