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« Torna agli articoli di Francesco Mori
Perché le chiese moderne sono così fredde e spoglie? Quale concezione estetica pare avere ispirato i progettisti? Da quale fonte è stata originata la scomparsa pressoché totale dell'ornato? Queste domande accompagnano ormai da decenni chi entra in un edificio sacro di recente costruzione ed acquistano ancor più forza e urgenza se si confrontano le strutture contemporanee con le chiese, anche le più piccole e periferiche, costruite fino agli inizi del secolo scorso. Dietro ogni scelta formale si cela l'espressione di una spiritualità. Cercheremo in quest'articolo di individuarne la natura e l'origine.
Nelle pagine de Il grande divorzio il genio di Clive Staples Lewis immaginò che un pullman di dannati partisse per un viaggetto fino in paradiso, per vedere come trascorresse la vita lassù. La comitiva, ben presto, si accorse con sorpresa che, rispetto al grigiore della tetra città che popolavano, e che pareva loro reale come il mondo conosciuto dell'aldiquà, lassù tutto era più nitido, colorato, denso e pesante, tant'è che la forza necessaria per alzare una singola foglia era pari a quella che serviva a spostare un grosso macigno all'inferno. Questo paradiso, in cui risultano potenziate tutte le caratteristiche della realtà creata, è davvero un'intuizione formidabile! A questa concezione se ne oppone frontalmente un'altra, oggi assai diffusa, che immagina l'aldilà come il luogo dell'evanescenza e della fusione inebetita delle anime in un'indistinta e accecante luminescenza, eternamente priva di mutazioni e di articolazioni. Si affrontano qui due differenti visioni del sacro: la prima di matrice cristiana e la seconda profondamente influenzata dalle religioni orientali, soprattutto l'induismo.
UNA ANTICIPAZIONE DEL PARADISO
In un vecchio catechismo della Conferenza episcopale toscana tutti i capitoli erano illustrati da splendidi quadri e antiche miniature, ma... solo la sezione sui novissimi si apriva con un quadro monocromo, giallino chiaro, percorso da linee orizzontali colorate. Sembrava proprio che per descrivere il nostro futuro eterno i vescovi - o i redattori del volume - non avessero trovato di meglio che questa illustrazione minimale e diafana. Da una simile scelta sorge il dubbio che la visione "orientale" dell'essere sia penetrata anche nella nostra cultura. A questa visione attingeva, non a caso, il primo testo teorico sull'astrattismo, scritto da Vasilij Kandinskij agli inizi del Novecento, che recava un titolo accattivante: Lo spirituale nell'arte. Questa contaminazione fa emergere l'urgenza di alcune domande capitali: a chi piacerebbe trascorrere la vita eterna perennemente abbagliato da un muto chiarore senza articolazioni e movimento? Chi si appagherebbe nell'infinita permanenza in questa sorta di eterna e monotona staticità, che assomiglia tanto al nulla? Chi anelerebbe a questa condizione esistenziale, avendo ancora negli occhi i colori del tramonto e dell'alba, la sorprendente vastità del mare, le foglie multicolori degli alberi in autunno e i visi dei propri cari?
Bene: le chiese, almeno quelle cattoliche, sono sempre state concepite come un tentativo di creare uno spazio che prefiguri una sorta di sacrale anticipazione del paradiso. Spesso vi si ricapitolava in pietra, in oro o in colori, l'intero vastissimo universo creato, che andava così ad ornare capitelli, volte, nicchie, cornici, chiavi di volta ecc. Ecco allora comparire il ciclo dei mesi, la storia umana, le età dell'uomo, le foglie d'acanto, le fiere, gli animali, i pesci, i pianeti, in pratica tutto il cosmo, da cui saliva a Dio lode e venerazione, poiché anch'esso attende con impazienza, come ci insegna San Paolo, la rivelazione dei figli di Dio (vedi Rm 8,19). Sicuramente questa concezione artistica si riallaccia armonicamente allo spirito che anima le pagine di Lewis.
LA VISIONE MINIMALISTA DELLA SPIRITUALITÀ
La visione "minimalista" della spiritualità pare invece aver plasmato e nutrito di sé gran parte della produzione artistica moderna, che in campo architettonico si caratterizza per la totale assenza di ornato e di decorazione. Volumi essenziali, superfici piatte e lucide, selve ortogonali di pilastri di grigio cemento hanno infatti ispirato e tuttora ispirano l'estetica delle costruzioni moderne.
Bisogna tristemente registrare che tale impoverimento formale, è penetrato massicciamente anche nella prassi progettuale delle chiese e degli edifici di culto. La chiesa di Dio Padre Misericordioso realizzata a Tor Tre Teste a Roma da Richard Meier, il Gesù Redentore di Modena di Mauro Galantino e la chiesa di San Paolo a Foligno, meglio nota come "il cubo di Fuksas" (vedi immagine), sono le ultime, discutibili riedizioni peggiorate e corrette di idee che si vanno attuando fin dagli anni '60 del Novecento e che hanno reso i nostri luoghi di culto spazi tutt'altro che piacevoli da frequentare. Attualmente rimane - luminosa creazione di un genio solitario - soltanto la straordinaria epopea del cantiere della Sagrada Familia di Barcellona, quale ultimo baluardo di bellezza ed equilibrio tra ornato e calcolo strutturale, anche se non sono mancati negli anni numerosi tentativi di semplificare in senso astratto le formidabili intuizioni di Antoni Gaudí. Le forme delle chiese contemporanee sembrano infatti esprimere più la spiritualità minimalista orientale che abbiamo esaminato in apertura che quella formulata magistralmente nelle acute pagine de Il grande divorzio e nella mirabile produzione architettonica dei secoli passati.
È giunta pertanto l'ora di un appello urgente: rimettiamo negli occhi e nei cuori del popolo di Dio il desiderio di abitare un giorno in una dimensione che potenzi e compia la natura della creazione e il destino dell'uomo! Questa è la missione dell'arte e dell'arte sacra in particolare: rendere capaci gli uomini di dare una "sbirciatina" in paradiso, non di inebetirli in un asettico Nirvana.
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