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« Torna agli articoli di Gianandrea
L'Italia e il mondo conoscono e apprezzano Giacomo Leopardi, peraltro sempre presentato come vittima della "chiusura mentale" del padre Monaldo (e dei suoi sperperi economici). La realtà è ben diversa, come spesso accade.
Il conte Monaldo Leopardi ha sempre pagato lo scotto di essere stato uomo di fede integerrima e idee e costumi tradizionali, non allineati all'ideologia del tempo, al contrario, occorre dirlo, del figlio, apprezzato dalla critica progressista, non solo ma anche, per la sua convinta adesione al materialismo ateo.
ARISTOCRAZIA COME MISSIONE
A scuola lo si ricorda solo come burbero padre di Giacomo Leopardi (e c'è molta leggenda nera nei rapporti tra i due), ma il conte Monaldo è invece una importante figura della storia, della cultura e - perché no? - anche della letteratura italiana a cavallo tra '700 e '800.
Nato a Recanati (allora provincia pontificia della Marca) il 16 agosto 1776 venne istruito in famiglia, come si usava a quel tempo. Il carattere, la formazione intellettuale e culturale, le vicende personali e familiari di Monaldo sono note grazie alla sua Autobiografia in cui, fra l'altro, scrive: «i principi di religione e di onore, e i modi nobili e generosi erano ereditari nella mia famiglia, tantoché i congiunti miei li trasfusero in me senza avvedersene».
Monaldo era attento anche all'abbigliamento, considerandolo un aiuto a mantenere un comportamento conveniente e a non cedere alle tentazioni: vestiva in modo severo, mai ostentato e portava lo spadino - già al tempo passato di moda - fino a quando ne venne proibito l'uso durante la Repubblica Romana.
In seguito il conte avrebbe osservato acutamente che le rivoluzioni hanno inizio proprio con l'apportare mutamenti al costume e con l'introdurre nuove mode: «Coloro che hanno immaginato di sconvolgere gli ordini della società e di rovesciare le istituzioni più utili e rispettate hanno incominciato dall'eguagliare il vestiario di tutti i ceti raccomandando la causa loro alla moda».
Parole che conservano ancora tanta verità: chissà cosa avrebbe pensato delle volgarissime, recenti mode, dal piercing ai tatuaggi, al fondoschiena ostentato.
UNA VITA DI IMPEGNO CIVICO
Nel 1797 sposò Adelaide dei marchesi Antici: dall'unione nacquero cinque figli (il primo è il poeta Giacomo), che il conte seguì amorevolmente, sforzandosi d'essere una guida affettuosa, studiando con loro e costituendo quella biblioteca familiare, che sarà uno strumento essenziale per la formazione di Giacomo.
Seguendo le tradizioni familiari si interessò attivamente di politica diventando consigliere comunale di Recanati a diciotto anni, governatore della città a ventidue, quindi amministratore dell'annona.
Si sforzò di pacificare gli animi nel turbolento periodo dell'invasione francese e, durante la Repubblica Romana e il Regno d'Italia, rifiutò di assumere incarichi pubblici.
Durante la Restaurazione fu due volte gonfaloniere di Recanati, la massima carica amministrativa, e si occupò della costruzione di strade e di ospedali, dell'illuminazione notturna, del sostegno ai meno abbienti, della riduzione delle gabelle, del rilancio degli studi pubblici e delle attività teatrali, perché «la coltura delle scienze e delle arti è misura della moralità e della prosperità sociale».
A differenza di quanto si pensa, Monaldo Leopardi non fu chiuso alle innovazioni. Pur preoccupato per le conseguenze della meccanizzazione sull'occupazione, ritenne che ferrovie e macchine a vapore rappresentassero un progresso; nei suoi possedimenti seguì le innovazioni degli agronomi più avvertiti (dalla messa a coltura dei prati all'applicazione di nuove colture, come il cotone o la patata).
Fu addirittura il primo a introdurre nello Stato Pontificio il vaccino antivaioloso, facendolo sperimentare sui propri figli; poi, da gonfaloniere, rese obbligatoria la vaccinazione.
Durante la carestia del 1816-'17 fece erogare gratuitamente i medicinali ai più bisognosi e creò nuovi posti di lavoro con la tessitura della canapa e la costruzione di strade.
L'attività riformatrice del conte non è in contraddizione con la sua polemica anti-illuminista: «Oggi - scrive - si pretende di costruire il mondo per l'eternità e si soffoca ogni residuo e ogni speranza del bene presente sotto il progetto mostruoso del perfezionamento universale», considerando la Rivoluzione come il contrario di ogni sano progresso perché rincorre un inesistente stato di natura perfetto.
LA LETTERATURA AL SERVIZIO DELLA VERITÀ
Monaldo Leopardi ha lasciato molti scritti - religiosi, storici, letterari, eruditi e filosofici - e un ricco epistolario con i più importanti esponenti della cultura cattolica dell'epoca. Contro le seduzioni della stampa rivoluzionaria, sempre più diffusa, egli ritenne necessario stimolare gli "scritti sani", che con la medesima determinazione degli avversari riconducessero «le idee degli uomini sulle strade del raziocinio» e ristabilissero «l'edificio sociale sui fondamenti della religione, della giustizia e della verità».
Le sue critiche alla filosofia illuminista e alla Rivoluzione sono contenute in vari scritti, i più famosi dei quali sono i Dialoghetti sulle materie correnti nell'anno 1831 - apprezzati fra gli altri dal futuro Papa Leone XIII - che conobbero sei edizioni in cento giorni e furono tradotti in francese, olandese e tedesco.
I Dialoghetti sono le sue "operette morali": scorrevolissime (a differenza, va detto, di quelle del figlio), sono però piene di amare verità e mettono in ridicolo le pretese conquiste del mondo "moderno" (soprattutto nel riuscitissimo Viaggio di Pulcinella).
Monaldo colse anche l'importanza di un teatro "utile e dogmatico" (sollecitato in questo dall'amico Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, anch'egli uomo politico e polemista contro-rivoluzionario) individuando nella forma dialogica un ottimo mezzo di divulgazione della verità.
COMBATTERE LE GUERRE DI DIO
Nel 1832 Monaldo iniziò la pubblicazione di un quindicinale, redatto a Recanati ma stampato a Pesaro, La Voce della ragione - «una cosa fatta tutta per la gloria di Dio», il cui programma era Prœliare bella Domini (combattere le guerre di Dio) -, che fu chiuso nel 1835, a causa di alcune polemiche con la Curia.
L'opera giornalistica del conte Monaldo fu comunque apprezzata da Papa Gregorio XVI, dal segretario di Stato cardinale Bernetti e dal generale della Compagnia di Gesù, Roothaan. Come i redattori del trisettimanale modenese Voce della Verità (1831-1841), Leopardi volle opporre all'offensiva della pubblicistica liberale una guerra sostenuta da una «mitraglia dei piccoli scritti», cioè pubblicazioni agili con un linguaggio semplice e comprensibile, invece che voluminose e di difficile comprensione: «La ragione è fatta per tutti e devono intenderla i ricchi e i poveri, e i dotti e gli idioti, le dame e le plebee».
Il giornale, stampato fino a duemila esemplari (quantità elevata per l'epoca) si occupava anche d'attualità e di politica; polemizzò le principali riviste liberali e democratiche del tempo; contestò le nuove dottrine educative e il cosiddetto modello americano proposto da Cattaneo; criticò l'egualitarismo massificante e l'accentramento statale, contro cui rivendicava le autonomie cittadine.
Dopo una collaborazione con il periodico svizzero Il Cattolico, Monaldo tornò negli ultimi anni di vita agli studi storici su Recanati, dove morì il 30 aprile 1847.
Nota di BastaBugie: va segnalata la recentissima pubblicazione della raccolta completa dei dialoghi di Monaldo Leopardi (Tutti i Dialoghi, Solfanelli, Chieti 2019, p. 304, € 18), il quale decise di combattere le seduzioni della stampa rivoluzionaria, con una serie di "scritti sani" per spiegare anche al pubblico più semplice i principi basilari di morale e politica. Così, per commentare i movimenti rivoluzionari del 1830 e 1831, Monaldo Leopardi pubblicò alcuni Dialoghetti che potevano raggiungere un pubblico vastissimo. Il successo fu immediato: moltissime le edizioni che si susseguirono - a volte anche all'insaputa dell'Autore - e che spinsero il conte Leopardi a continuare sulla via intrapresa e a scrivere altri dialoghi, pressoché dimenticati, ma ora finalmente raccolti in un unico volume. (Corrispondenza Romana)
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