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« Torna agli articoli di Giuseppe
Il 23 giugno del 2016 quasi 47 milioni di cittadini britannici sono stati chiamati a rispondere al referendum che ha determinato il futuro del loro Paese, detto "Brexit", acronimo formato da British ed exit (uscita dall'Ue). L'affluenza è stata rilevante, il 72,21% di elettori, con un esito piuttosto chiaro: favorevoli all'uscita dall'Unione europea (Leave) il 51,89%, a rimanere nell'UE (Remain) il 48,11%. Nonostante il risultato del referendum non fosse vincolante, il Governo di Londra ha interpretato in maniera determinata l'espressione del voto popolare, anche perché la campagna elettorale è stata accompagnata da un bombardamento politico-mediatico nazionale e internazionale totalmente unilaterale e in favore del Remain.
I cittadini del Regno Unito hanno dovuto attendere 4 anni e mezzo per ritornare nel pieno possesso della loro sovranità nazionale. Le complessità tecno-burocratiche imposte dai trattati e dalla Commissione europea hanno infatti dato luogo a quella che non pochi hanno definito una strategia dilatoria che, solo il 31 gennaio del 2020, ha consentito alla Gran Bretagna di lasciare formalmente l'Ue. Dico solo formalmente, perché a "10 Downing Street" si sono dovuti ulteriormente sottoporsi ad un periodo di transizione per il definitivo Leave durato ben 11 mesi, con il 31 dicembre del 2020 come data definitiva della "liberazione da Bruxelles".
Nonostante siano trascorsi dunque soli due anni, da tempo ormai i grandi media nazionali, ripresi acriticamente anche da quelli internazionali, vanno ripetendo che secondo vari sondaggi la Brexit non sarebbe più «di moda». La crisi economica globale starebbe alimentando fra i cittadini britannici «segnali di ripensamento sul divorzio dall'Ue» o, almeno di «delusione su quanto finora conseguito».
I SONDAGGI SARANNO PRESTO RIBALTATI
Premesso che il Pil del Regno Unito è cresciuto di circa il 4% nel 2022 [...], è indubbio che quella che sta vivendo in questi mesi è una delle peggiori recessioni tra le economie del G7. L'economia britannica, infatti, secondo l'ultimo aggiornamento del World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale è destinata a contrarsi quest'anno dello 0,6 per cento, in un contesto di PIL globale previsto in rialzo al 2,9 per cento. Quello che si evita di rimarcare, però, è che grazie alle misure della manovra di un Paese che ha ripreso in mano le sue politiche economiche, dovrebbe fare presto ritorno alla crescita (dell'1,3%) nel 2024 e del 2,6 e 2,7% nei due anni successivi, secondo le previsioni recentemente annunciate dal cancelliere dello Scacchiere Jeremy Hunt, in pratica l'equivalente del nostro ministro dell'Economia e delle finanze.
In definitiva, quindi, i recenti sondaggi sbandierati sul ripensamento Brexit hanno il fiato corto. Nel senso che in questo particolare momento storico-politico, grazie anche alle campagne degli influencer e degli spin doctors dell'informazione filo-Ue, potrà anche essere che si sta facendo largo «l'idea di un possibile secondo referendum dopo quello vinto dai pro-leave nel 2016». Le cose, però, sono destinate ad invertirsi completamente nel giro di poco più di un anno. Oltretutto sono presentati come "sondaggi" consultazioni di dubbia scientificità statistica come, ad esempio, quello commissionato nel dicembre scorso dal quotidiano online The Independent, secondo il quale a evocare l'ipotesi di una ripetizione del voto sull'Ue sarebbero in questo momento il 65% degli intervistati, contro il 55% dell'anno scorso. Anche a prendere per buoni i risultati, andrebbe comunque correttamente evidenziato che sul ripetere il referendum saranno pure due britannici su tre, ma questa posizione è assai differenziata nei modi. Infatti, secondo i risultati resi noti dal sopra citato giornale britannico, solo il 22% degli intervistati «vorrebbe votare ora», il 24% «vorrebbe rifare il referendum nei prossimi cinque anni», il 24% «tra dieci anni» mentre il 4% pensa che si debba tenere nei prossimi vent'anni. Chi invece non vuole sentir affatto parlare di nuovo referendum è il 24% degli interpellati, uno su quattro. Il fatto è che fra questi ultimi vi è anche l'attuale premier Rushi Sunak, ardente difensore della Brexit sin dall'inizio, convinto che le libertà e opportunità acquisite con il "divorzio" dall'Ue debbano ancora essere del tutto dispiegate e sfruttate.
UN SECONDO REFERENDUM È IMPROPONIBILE
E l'opposizione laburista? Anche qui non c'è trippa per gatti perché il leader del Labour Party, Keir Starmer, parla come Boris Johnson. Ha infatti testualmente dichiarato, nonostante tutti i sondaggi che gli sono stati sottoposti: «Non ci sono più argomenti per tornare nell'Ue o al mercato unico. Ma credo che ci siano argomenti per attuare una Brexit migliore, per farla finalmente funzionare. Possiamo raggiungere un accordo migliore con l'Ue, perché quello attuale non funziona», ha dichiarato Starmer alla Bbc lo scorso dicembre. A livello pratico, quindi, una domanda che molti giornalisti euro lirici o prezzolati non stanno ponendo sarebbe la seguente: esiste la volontà politica nel Regno Unito per un secondo referendum sulla Brexit? Come visto, i leader e le maggioranze interne dei due principali partiti britannici non hanno preso minimamente in considerazione l'ipotesi di un ritorno del Paese nell'Ue. I Liberali e i Verdi probabilmente sarebbero favorevoli, ma non le formazioni che detengono il maggior numero di seggi a Westminster. Alle ultime elezioni politiche tenutesi in Gran Bretagna nel 2019, infatti, il Partito Conservatore (Tory), il cui manifesto elettorale si basava oltretutto sulla "delivery" (ovvero il compimento) della Brexit, ha conseguito il 42,4% dei voti, una percentuale che, sommata a quella raccolta nelle stesse consultazioni dal Partito Laburista (40%), copre la quasi totalità della rappresentanza parlamentare (8 elettori su 10 e 579 seggi su 631).
Di conseguenza, l'ipotesi di un secondo referendum consultivo, dopo quello del 2016, è al momento improponibile. Se il Partito laburista punta a riconquistare seggi nel nord dell'Inghilterra, dove la popolazione 7 anni fa si è espressa in maggioranza in favore della Brexit, l'attuale esecutivo guidato da Sunak intende piuttosto consolidare la sovranità economica riconquistata, provando ad affrontare prima delle prossime elezioni del 2024 le tematiche relative al Leave. Anche in futuro, quindi, risulterà difficile immaginare svolte radicali su questo tema. Tanto più che Londra, a differenza di Bruxelles, nonostante le attuali difficoltà economica resta uno degli attori geopolitici principali sullo scacchiere globale, con ruoli di primo piano sia nell'ambito della Nato e della guerra in Ucraina che del G7 e delle Nazioni Unite grazie al seggio permanente detenuto nel Consiglio di sicurezza. Il soft power del Regno Unito è dunque molto rilevante, specialmente quando si traduce in iniziative di politica estera e di sicurezza.
In conclusione, come giustamente commentato dall'europarlamentare Salvatore De Meo (FI), presidente per il Partito popolare europeo della Commissione per gli affari costituzionali, i sondaggi e la volontà politica «non vanno necessariamente di pari passo, così come il risultato di un sondaggio non ci assicura sull'esito di un referendum». «Basti pensare al referendum che ha portato alla Brexit», ha aggiunto, rimarcando ai giornalisti senza-memoria (o in cattiva fede) che nel 2016 fino alla vigilia del referendum per il Remain tutti i sondaggi davano la vittoria con un vantaggio di 4 punti (in favore il 52%), con il Leave dato solo al 48% (fonte: Britain Elects). Il Regno Unito dovrebbe quindi ben restare per conto suo, con buona pace di chi si professa europeista ma poi lascia intendere che l'Ue sia un qualcosa da prendere o lasciare a piacimento.
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