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« Torna agli articoli di Giuseppe Brienza
Secondo i media più diffusi, dovremmo attribuire al Cristianesimo la maggior parte delle sventure e delle calamità che hanno contraddistinto gli ultimi due millenni della storia occidentale e privarlo dei "meriti storici" che, almeno fino a qualche tempo fa, gli erano comunemente riconosciuti. Uno di questi è l'opera di elevazione culturale e spirituale che ha permesso all'uomo di liberarsi dalla schiavitù. Infatti, l'insegnamento evangelico ha avuto sulla società e sulla vita concreta degli antichi una notevole ricaduta, anche per quanto riguarda questa pratica di asservimento; già molto prima del Cristianesimo la schiavitù si praticava nell'Egitto dei faraoni e nell'antica Mesopotamia.
Come ha documentato lo storico francese Pétré-Grenouilleau, la schiavitù era presente in modo capillare in tutta l'Africa e la Grecia, potendo tranquillamente divenire schiavi anche i bambini abbandonati «secondo una politica corrente nelle civiltà antiche». Qui, infatti, a differenza che nell'antica Roma, la schiavitù era da tutti vista come un istituto di diritto naturale. Per i Romani, invece, l'uomo non era schiavo "per natura" ma lo poteva diventare se la legge positiva l'avesse, per motivi di opportunità politica, deciso. Quindi, poiché non nasceva schiavo, a differenza che in Grecia, lo schiavo romano poteva essere liberato e ottenere la cittadinanza. Questa era la situazione del mondo pagano quando il Cristianesimo cominciò a diffondersi e a operare per superare la schiavitù contribuendo a modificare, nel giro di pochi secoli, una mentalità presente da sempre.
In verità, il Nuovo Testamento non fa un cenno diretto al problema della schiavitù, perché l'insegnamento di Cristo per l'edificazione, da parte di ciascuno, di un uomo nuovo, avrebbe automaticamente fatto cadere tale indegna realtà sociale. Nella Lettera a Filemone, nella quale san Paolo intercede per lo schiavo convertito Onesimo, fuggito dal suo padrone, egli non predica al suo destinatario, Filemone, un cristiano di Colossi, la libertà del suo schiavo, ma gli ricorda i suoi doveri di umanità e raccomanda il rispetto e l'amore al precetto evangelico, che era concetto totalmente nuovo per l'antichità, della comune fratellanza e dell'uguaglianza di tutti gli uomini innanzi a Dio.
I Cristiani, dal canto loro, davano il buon esempio perché, nella Chiesa primitiva, gli schiavi godevano di tutti i diritti, privilegi e facoltà degli altri fedeli liberi. Quindi partecipavano senza discriminazioni alle assemblee liturgiche e, una volta liberati, potevano anche divenire vescovi. Persine un pontefice, san Callista I, che ha regnato dal 217 al 222, portava le stimmate di schiavo fuggitivo.
La Chiesa cercò di risolvere anche sul piano civile e politico il problema della schiavitù, adoperandosi in tutti i tempi per emancipare coloro che per diritto di guerra o per altri motivi erano divenuti schiavi. Così, con Costantino il Grande (274-337), non solo ottenne di far vietare il marchio a fuoco per gli schiavi ma, sempre in ossequio alle nuove idee evangeliche, lo convinse a ostacolare, con leggi contro l'infanticidio e l'abbandono e con aiuti fiscali alle famiglie bisognose (del 315 e 318), l'antica usanza dei padri romani di esporre i propri figli o di venderli, trasformandoli così in schiavi.
Vi furono poi durante l'età medievale diversi concili, sia universali sia locali, che adottarono numerose misure in favore degli schiavi, come il divieto per i padroni di infliggere loro pene troppo severe (ad es., la mutuazione o la requisizione dei loro risparmi), di usare le schiave come concubine, e per imporre la necessaria liberazione dal servaggio degli schiavi divenuti monaci o preti.
In questo modo la schiavitù come fenomeno di massa e con le terribili caratteristiche che aveva nel mondo pagano scomparve gradualmente, per ricomparire però all'alba dell'età moderna. Ma non per colpa dei Papi del XV e XVI secolo, come vorrebbero alcuni! Infatti, leggendo alcuni quotidiani o navigando su internet ci si imbatte in articoli e commenti nei quali si afferma che la schiavitù è stata teorizzata e legittimata dalla Chiesa con la bolla di Papa Niccolo V (1447-1455) Dum diversas del 1452. Scorrendo solo il web italiano si trovano lunghi saggi che attestano tali corbellerie come «Fu Il cristianesimo ad abolire la schiavitù?» oppure, per criticare addirittura Benedetto XVI, «Le amnesie angolane di Ratzinger a proposito di schiavismo».
È vero che il passaggio fra 1400 e 1500 fu uno dei periodi più difficili per la Chiesa, perché gli Stati nazionali presero a rivendicare la massima autonomia e talvolta, con offerte e minacce più o meno dirette, cercarono di piegarla ai loro voleri. Soprattutto all'epoca della scoperta dell'America, vi furono sovrani e notabili che tentarono con tutti i mezzi di allentare il martellamento di religiosi, Papi e vescovi per il rispetto della dignità degli indigeni che vietava il ricorso al loro asservimento e lo sfruttamento delle loro terre. Ma l'opposizione della Chiesa allo schiavismo e alle disumanità, nonostante la vulgata corrente, non è mai venuta meno, soprattutto per l'azione e il Magistero dei pontefici.
Si può menzionare a questo proposito anzitutto la bolla Sicut dudum di Eugenio IV del 1435, con la quale si intimava agli spagnoli giunti nelle Canarie di «riportare alla precedente condizione di libertà tutte le persone di entrambi i sessi una volta residenti delle dette isole Canarie», sotto pena di scomunica. Poi la lettera di Pio II Rubicensem, del 1492, in cui il Papa condannava il vescovo della Guinea portoghese reo di aver commesso il "magnum scelus", cioè il grande crimine, di aver fatto schiavi centinaia di neri. Infine, la bolla di Paolo III del 1537 contro la schiavitù nel Nuovo Mondo Sublimis Deus, nella quale il Papa ricordava a quanti negavano l'umanità degli indigeni, sostenendo tale tesi con la bestialità dei loro sacrifici umani e del cannibalismo, che gli «indiani in verità sono uomini autentici», e che non è lecito a nessuno privare della libertà e delle proprietà «gli stessi indiani e tutti gli altri popoli, anche se non appartenenti alla nostra religione».
Ritornando alla citata Dum diversas, occorrerebbe prima di tutto inquadrarne il concetto-base di "giusta schiavitù", contestualizzandone la promulgazione. Infatti, come ha ricordato lo storico Francesco Pappalardo, tale bolla si rivolge unicamente al Re di Portogallo Alfonso V, che era allora a capo di un popolo artefice di «un'attività evangelizzatrice così intensa e feconda rispetto alla sua modesta consistenza come quello portoghese, che ha meritato da Papa Pio XII l'appellativo di "popolo crociato e missionario"». All'origine della Dum diversas vi fu quindi il riconoscimento da parte della Santa Sede del coraggioso impegno missionario dei portoghesi in tre continenti che si realizzava accordando al loro Re il possesso della costa occidentale africana e delle isole adiacenti, anche per il tributo di sangue pagato per strappare quelle terre agli islamici.
I musulmani, dal canto loro, come ha riconosciuto il sociologo protestante Rodney Stark, qui «raccoglievano un gran numero di schiavi [...] presi prigionieri in battaglia o catturati dai pirati». Quello che va rimarcato con la massima chiarezza, è che la bolla di Niccolo V non costituì una "autorizzazione i generale" alla schiavitù, ma un provvedimento concesso esclusivamente al Re e all'aristocrazia portoghese del tempo per i loro meriti storici nella difesa della Chiesa e del popolo cristiano.
Quello decisivo fra i documenti della Chiesa sulla schiavitù, in quanto arriva fino ai tempi attuali, è la citata bolla Sublimis Deus che, indirizzata a tutto il mondo cristiano e non a un Re o a un vescovo di una zona, ha annullato tutte le opinioni precedenti in materia, compresa quella tanto contestata ancora oggi del suo predecessore Niccolo V. Sentenziò quindi una volta per tutte Papa Paolo III: «indios veros homines esse» («gli indiani sono veri uomini»).
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