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« Torna agli articoli di Giuseppe Brienza
Santo o aguzzino? Ancora oggi si disputa sulla figura di Luigi Calabresi, commissario-capo di Pubblica Sicurezza, assassinato il 17 maggio 1972 (era nato a Roma, il 14 novembre 1937) da Ovidio Bompressi, con la complicità di Leonardo Marino, su mandato di Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani, tutti e quattro membri del gruppo comunista-rivoluzionario di "Lotta Continua".
LA DAMNATIO MEMORIAE
La "leggenda nera" sul Commissario nasce con la triste vicenda della morte di Giuseppe Pinelli, un ferroviere anarchico milanese, che dopo lo scoppio della bomba nella sede della Banca nazionale dell'Agricoltura a Milano (Strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969), venne fermato insieme ad altri anarchici milanesi da agenti della Questura di Milano. Il 15 dicembre 1969, tre giorni dopo la strage, Pinelli negli uffici della questura milanese, dove si era recato da solo – con il proprio motorino – convocato dal giovane Luigi Calabresi, che l'anarchico già conosceva, fu interrogato per ore dallo stesso commissario e da altri ufficiali. Nella serata del 15 dicembre, attorno a mezzanotte, il corpo di Pinelli precipitò dalla finestra e si schiantò nel cortile della questura. Successivamente a una serie di inchieste e dopo la riesumazione del cadavere, la magistratura stabilì che Pinelli era caduto per un "malore attivo", cioè si era avvicinato alla finestra e a seguito di un malore aveva perso l'equilibrio ed era precipitato ma, ormai, una violenta campagna di stampa dell'estrema sinistra, e in particolare di "Lotta Continua", aveva bollato il commissario Luigi Calabresi come il torturatore e l'assassino di Pinelli.
IL SANTO
Di taglio completamente opposto è la visione del commissario che ne da uno dei suoi maggiori biografi, lo storico e giornalista Luciano Garibaldi che, dalle colonne del mensile cattolico Il Timone, ha da tempo rivendicato «passi avanti da compiere» sulla figura di Calabresi, in particolare esaminando «con la dovuta attenzione la richiesta di dare inizio a un processo di beatificazione teso ad accertare le virtù cristiane di Luigi Calabresi, richiesta avanzata da numerosi esponenti della Chiesa, primo tra i quali colui che fu il confessore e padre spirituale del commissario, don Ennio Innocenti, del clero romano» ("Luigi Calabresi, un uomo da non dimenticare", in il Timone, n. 66, settembre-ottobre 2007, p. 22).
«Luigi Calabresi ha vissuto in pieno le "assurdità" cristiane – ha commentato il cardinale Angelo Comastri, Vicario Generale di Sua Santità per la Città del Vaticano, nella prefazione al documentato libro di Giordano Brunettin, "Luigi Calabresi. Un profilo per la storia" (Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis) – non si è preoccupato del potere ma del dovere, non si è preoccupato della carriera ma della fedeltà alla coscienza, non ha cercato onori ma ha cercato di far onore alla verità e all'onestà. Per questo è stato ucciso; e, dopo l'uccisione, è stato più volte crocifisso da una campagna di menzogne che, finalmente, ora si stanno sciogliendo come la nebbia al sole».
Anche Giovanni Paolo II in occasione del XXX anniversario del sacrificio di Calabresi (caduto nel 2002), lo ha definito, «generoso servitore dello Stato, fedele testimone del Vangelo, costante nella dedizione al proprio dovere pur fra gravi difficoltà e incomprensioni, esempio nell'anteporre sempre all'interesse privato il bene comune».
LA FICTION DELLA RAI
Di Calabresi si riparlerà sicuramente a partire dal 7/8 gennaio prossimi, in concomitanza con la fiction trasmessa in due puntate in prima serata da Rai Due, nella quale Emilio Solfrizzi interpreta la figura del Commissario romano.
Si tratta del primo appuntamento della serie "Gli anni spezzati", dedicata appunto al terribile periodo del terrorismo italiano («anni di piombo»), realizzata in co-produzione da Albatross Etertainment e Rai Fiction Due, liberamente tratte dal volume, appena pubblicato dalle Edizioni Ares di Milano, "Gli anni spezzati. Il Commissario". L'Autore, il già citato Luciano Garibaldi (foto a sinistra), vi ricostruisce con una documentazione scrupolosa e completa la campagna di odio e di linciaggio morale che gran parte della stampa scatenò, negli anni dal 1970 al 1972, contro Calabresi, ripercorrendo, come rileva Marcello Veneziani nella Prefazione al volume «in modo appassionato e incalzante, attento ai dettagli e alle sfumature, la vicenda Calabresi, preceduta dal caso Pinelli – che Garibaldi tratta col rispetto che merita».
IL LIBRO
Sullo sfondo del libro, pagina dopo pagina si staglia, immutata e quasi imperturbabile, la figura del Protagonista: «Il ritratto di Luigi Calabresi», continua Veneziani, «è un ritratto in piedi. Un uomo che aveva il senso dello Stato, che credeva al decoro delle istituzioni e alla dignità del suo ruolo, che aveva la responsabilità di uomo d'ordine. Un'espressione antica, terribilmente démodé, le compendiava tutte: "servitore dello Stato". Così si definiva Luigi Calabresi. E chi fa una smorfia d'insofferenza per un'espressione antiquata e retorica, ripensi con rispetto che a quella definizione Calabresi restò fedele fino alla morte. Inclusa. Tutto per 270mila lire mensili».
GIUSTIZIA E RICONCILIAZIONE PER GEMMA CALABRESI
Luciano Garibaldi è stato il primo giornalista che è riuscito, trentatré anni fa, a far parlare in un'intervista su Gente la vedova di Luigi Calabresi, Gemma Capra, una donna minuta e forte che, negli occhi grigio-azzurri porta ancora la memoria di una ferita senza fine intrecciata a una vita che il dolore non è riuscito a fermare. Ma che l'ha portata ha reagire parlando, ad esempio, alle giovane generazioni di legalità e coraggio nel servire le Istituzioni ed il bene comune. Come ha fatto, ad esempio, nel marzo scorso a Carpi, partecipando ad una iniziativa educativa intitolata non a caso "Il coraggio di ri-cominciare", nella quale ha proposto la sua testimonianza e quella del marito, ai ragazzi delle scuole medie e superiori.
GLI ANNI PEGGIORI SONO PASSATI (?)
Conoscere e far conoscere oggi la vicenda di Calabresi appare, dunque, una battaglia di principio e di verità storica. Anche grazie a testimonianze come quella di Gemma, a Calabresi fu data dal presidente Ciampi, con trentadue anni di ritardo, la medaglia d'oro al valor civile.
Come la vedova Calabresi, anche per Leonardo Marino, l'ex operaio delle carrozzerie Mirafiori ed ex militante di "Lotta Continua", il "grande accusatore" di Adriano Sofri, l'"assistenza" dal cielo di Luigi, ha ricondotto sul cammino della fede, chissà se la cultura (e la televisione) italiana sapranno riparare all'esecrazione ed al disprezzo tributati dall'intellighenzia ad una intera famiglia. E si riuscirà, finalmente, come ha riconosciuto il "redento" Marino, che «gli anni peggiori sono passati».
Nota di BastaBugie: riportiamo di seguito le parti più significative dell'articolo citato da Giuseppe Brienza "Luigi Calabresi. Un uomo da non dimenticare" di Luciano Garibaldi pubblicato sul Timone n.66 del settembre/ottobre 2007.
Nel 1990 potei realizzare, in qualità di curatore, il libro di memorie di Gemma Capra, "Mio marito il commissario Calabresi", grazie alla imponente documentazione sul caso raccolta dal giornalista Enzo Tortora, uno dei pochi che aveva avuto il coraggio di difendere Calabresi dal linciaggio a cui era stato sottoposto. Poco prima di morire mi passò i fascicoli ricevuti dall'avvocato Michele Lener e così mi trovai "costretto" a occuparmi decisamente del caso.
L'anarchico Giuseppe Pinelli era morto, precipitando dal quarto piano della Questura, il 15 dicembre 1969. Era stato fermato da Calabresi in seguito all'arresto di Pietro Valpreda, anch'egli anarchico e principale sospettato per l'attentato del 12 dicembre alla Banca Nazionale del Lavoro, a Milano. Il 3 luglio dell'anno seguente, il giudice Antonio Amati aveva concluso l'istruttoria sulla sua morte attribuendola a suicidio. Fu in quel preciso istante che la "buriana" contro Calabresi esplose dilagando senza più argini. Centinaia di giornalisti e uomini di cultura - a partire da Alberto Moravia c'erano tutti - sottoscrissero il "messaggio di protesta" pubblicato da L'Espresso, nel quale Calabresi veniva definito «commissario torturatore» e «responsabile della morte di Pinelli».
Quando, nel dicembre 1971, andrà in scena la farsa di Dario Fo "Morte accidentale di un anarchico", con protagonista il "dottor Cavalcioni", alias Luigi Calabresi, da parte della stampa si leveranno autentici peana.
Persino da pulpiti come quello di Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, il cui critico teatrale scriverà: «Estro assillante, gusto del paradosso, sorridente violenza scarnificante, felice ispirazione. All'attore-autore tutto il consenso che gli è dovuto». Ai cronisti politici, agli editorialisti, agli elzeviristi, si aggiunsero le incessanti iniziative del Movimento nazionale giornalisti democratici, sorto nei pensatoi controllati dai partiti comunista e socialista, fonte inesauribile di autentica disinformazione e di ricostruzioni arbitrarie dei fatti, basate sulle fantasie più assurde e indimostrabili, vera sorgente alla quale si abbeveravano giornalisti che scrivevano sui quotidiani e sui settimanali più diffusi. Un esempio per tutti, Camilla Cederna, che nel suo libro di grande successo - grande perché lanciato da una straripante campagna di supporto propagandistico - "Pinelli: una finestra sulla strage", scriverà la sua personale ricostruzione - totalmente arbitraria - della morte di Pinelli. [...] Parole che non hanno altro significato se non questo: la polizia ha messo le bombe nelle banche e vuoi farne ricadere la colpa sull'editore rivoluzionario Giangiacomo Feltrinelli. Pinelli smaschera il diabolico piano. Calabresi lo uccide.
«Ero convinto», scriverà Leonardo Marino nel suo libro "La verità di piombo", edito da Ares nel 1992, successivamente ristampato con il titolo "Così uccidemmo il commissario Calabresi", «che l'anarchico Pinelli fosse stato ucciso nella questura di Milano da Calabresi o comunque per ordine di Calabresi. Quanto all'attentato del 12 dicembre 1969, ero certo che non potevano averlo fatto gli anarchici.
La campagna di stampa, poi, era tambureggiante e convincente, almeno per noi. Ora so che Calabresi era solo un poliziotto che faceva il suo mestiere. Ma allora, per noi, il poliziotto "buono" non esisteva.
Lo attaccavano a fondo non soltanto "L'Espresso", "l'Unità", "Vie Nuove" e l'"Avanti!", ma la maggior parte dei più importanti quotidiani. Leggevamo quegli articoli, e non era come leggere "Lotta Continua", di cui sapevamo che era un foglio di propaganda e che, per fare propaganda, poteva anche esagerare un po'. Ma il vedere le stesse cose scritte sui giornali borghesi, sui grandi quotidiani, ci faceva dire: "Ma allora è tutto vero!"».
Per ricordare chi veramente armò, dal punto di vista morale, la mano di Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi, Leonardo Marino e degli altri assassini che ancora mancano all'appello, è sufficiente risfogliare L'Espresso n. 24 del 13 giugno 1971, n. 25 del 20 giugno e n. 26 del 27 giugno. Furono più di ottocento gli "uomini di cultura" che aderirono alla lettera-appello contro Calabresi. Tra i filosofi, Norberto Bobbio e Lucio Colletti. Cinecittà era rappresentata praticamente al completo: Federico Fellini, Mario Soldati, Cesare Zavattini, Luigi Comencini, Liliana Cavani, Giuliano Montaldo, Bernardo Bertolucci, Carlo Lizzani, Paolo e Vittorio Taviani, Duccio Tessari, Gillo Pontecorvo, Marco Bellocchio, Salvatore Samperi, Ugo Gregoretti, Nanni Loy. Tra i poeti, accanto a Pasolini, Giovanni Raboni e Giovanni Giudici. Dopo gli editori Giulio Einaudi, Inge Feltrinelli e Vito Laterza, venivano i pittori: Renato Guttuso, Ernesto Treccani, Emilio Vedova, Carlo Levi. Ed ecco i critici (da Giulio Carlo Argan a Gillo Dorfles, da Morando Morandini a Fernanda Pivano), gli architetti (Gae Aulenti, Gio Pomodoro, Paolo Portoghesi) e nomi di prima grandezza come il musicista Luigi Nono e la scienziata Margherita Hack.
La letteratura era rappresentata, tra gli altri, da Alberto Moravia, Umberto Eco, Domenico Porzio, Dacia Maraini, Enzo Siciliano, Alberto Bevilacqua, Franco Fortini, Angelo M. Ripellino, Natalino Sapegno, Primo Levi, Enzo Enriques Agnoletti, Lalla Romano. Accanto ad Umberto Terracini, presidente del Senato, uomini politici come Massimo Teodori, Giorgio Amendola, Giancarlo Pajetta. Quanto ai giornalisti, solo l'imbarazzo della scelta: Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Furio Colombo, Livio Zanetti, Paolo Mieli (che in seguito, assieme a pochi altri, riconoscerà il torto e chiederà perdono alla famiglia), Sergio Saviane, Vittorio Gorresio, Carlo Rognoni, Carlo Rossella, ovviamente Camilla Cederna e infine Tiziano Terzani, che, dopo aver esaltato la rivolta dei khmer rossi in Cambogia, finirà, pentito, per narrarne i misfatti. Altri nomi, scelti a caso: Vittorio Vidali, l'uomo della NKVD che aveva organizzato il massacro degli anarchici ribelli a Stalin durante la guerra di Spagna, e ancora, il promotore della legge che aveva abolito i manicomi causando migliaia di tragedie famigliari, Franco Basaglia.
Tutti costoro condannarono Calabresi senza disporre di un benché minimo indizio, dopo che la magistratura lo aveva prosciolto in un regolare processo, senza assolutamente chiedersi, prima di firmare, chi veramente fosse l'uomo che accusavano di assassinio, che indicavano - con l'autorevolezza dei loro nomi - al pubblico ludibrio e al linciaggio dei fanatici dell'estrema sinistra. Lo colpirono nel momento peggiore, quand'egli era impegnato a riscattare il proprio onore con i soli mezzi di cui dispone un cittadino rispettoso della legge e alieno da ogni violenza e da ogni desiderio di vendetta: cioè rivolgendosi all'autorità giudiziaria con l'appoggio di un avvocato penalista, visto che il cosiddetto potere esecutivo, che avrebbe dovuto schierarsi compatto al suo fianco, lo aveva abbandonato al linciaggio.
Lo Stato disertò. Gli "ottocento" firmarono. E, sulla base di quelle firme, Lotta Continua uccise.
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