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« Torna agli articoli di Luigi
È finita con un nulla di fatto. È finita come al solito nella Russia di Putin, il Paese dove l'impunità regna sovrana. Il processo per l'assassinio di Anna Politkovskaja si è concluso con un verdetto ampiamente previsto ma che lascia comunque l'amaro in bocca: tutti assolti gli imputati che erano stati accusati di complicità nell'omicidio della coraggiosa giornalista russa, uccisa il 7 ottobre del 2006. A destare scandalo non è la sentenza finale, accolta da tutti con triste rassegnazione, quanto piuttosto l'intera vicenda giudiziaria.
Sul banco degli imputati figuravano due balordi ceceni e un poliziotto moscovita radiato per i suoi legami con la malavita, una piccola banda dal nome casereccio (Cosca Lasagna, per via del ristorante dove si ritrovavano abitualmente) che avrebbe avuto un ruolo del tutto marginale nell'assassinio della Politkovskaja. L'esame del Dna li aveva discolpati e lo stesso avvocato dei familiari della vittima li aveva scagionati perché «erano stati usati da qualcuno che stava molto più in alto e che probabilmente loro non conoscevano».
Dunque non sorprende il verdetto assolutorio. Quel che invece risulta scandaloso è un procedimento giudiziario per omicidio che viene imbastito da un tribunale militare in assenza del mandante ed anche del sicario. Negli ultimi tre mesi presso la Corte militare dell'Arbat si è svolto un processo ai fantasmi nel bel mezzo di una nebbia.
Alla sbarra c'era la manovalanza cecena insieme con alcuni capi dei servizi 'deviati' del Fsb, l'ex Kgb, mentre il killer ha trovato rifugio all'estero, probabilmente in un Paese dell'Unione Europea. E resta inafferrabile il mandante su cui si scatenano le fantasie più disparate. C'è chi punta il dito contro Ramzan Khadyrov, il proconsole di Putin nella Cecenia normalizzata, già obiettivo polemico della Politkovskaya. Chi invita a cercare nelle alte sfere dell'esercito e dei servizi di sicurezza che hanno condotto la sporca guerra del Caucaso. E chi infine, come il capo della Procura di Mosca, ha tirato in ballo Boris Berezovsky, l'oligarca nemico di Putin in esilio a Londra, già sostenitore di Novaya Gazeta, il giornale per cui lavorava Anna Politkovskaja. In realtà, non c'è mai stata un'indagine seria ed accurata da parte della magistratura russa che ha concluso in gran fretta il suo lavoro, pieno d'incoerenze e gravi lacune. Lo ha fatto per rompere l'intollerabile catena di omissioni e silenzi che pesava su tutte le inchieste per gli omicidi eccellenti compiuti in Russia in questi ultimi anni, in particolare dei giornalisti (13 uccisi, solo a Mosca, dal 2000 ad oggi).
Il processo Politkovskaja avrebbe dovuto segnare una svolta. Ne è venuta un'inquietante conferma: in Russia la libertà d'opinione è sempre più ardua mentre i killer dei giornalisti e dei difensori dei diritti umani hanno la vita facile. È passato solo un mese dall'efferata uccisione di una giovanissima reporter, Anastasia Babulova, e dell'avvocato Stanislav Merkelov, assassinati nel centro di Mosca da un killer che poi si è allontanato in tutta calma scendendo a prendere il metrò. È questo terribile senso d'impunità che la Politkovskaja non si stancava di denunciare. Mosca, ovvero la paura che non c'è.
«Gli assassini non hanno paura perché sanno che non saranno puniti - ha scritto Novaya Gazeta -, ma anche le loro vittime non hanno paura. Perché quando difendi gli altri smetti di avere paura». In attesa di un nuovo processo che forse non verrà mai.
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