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"Frutto della vana gloria e figlia dell'incredulità" (La Scala, XX,1): è questo, secondo san Giovanni Climaco, l'albero genealogico della pusillanimità. Mai come il nostro tempo la paura è divenuta il pane quotidiano degli uomini, con noi cristiani purtroppo in cima alla lista. Note o ignote disgrazie, probabili o improbabili calamità all'orizzonte , presunte profezie o angoscianti vaticini di uomini che giocano a fare i semidei: tutto acquista peso nel cuore del pusillanime. Non è il semplice fatto di avvertire la paura a essere una patologia dell'anima, ma lasciare che la paura prenda piede, detti le nostre decisioni, penetri i nostri pensieri e i nostri atteggiamento. "L'anima superba è schiava della pusillanimità: confida in sé stessa e poi si spaventa davanti al minimo rumore e all'ombra delle creature!" (XX,3). Il superbo non confida che in sé stesso, nelle proprie forze e convinzioni; il suo coraggio poggia dunque su fondamenti corruttibili, precarie, limitate, e non appena un pericolo lo minaccia la sua fragile fortezza vacilla. E non vedendo che se stesso e le proprie soluzioni, egli vive in una concreta, e a volte teorica, incredulità. Se infatti la superbia e la vanagloria riguardano l'eziologia della pusillanimità, l'incredulità ha a che fare con la patogenesi: è infatti attraverso il processo "fisiologico" della mancanza di confidenza in Dio, causata dalla superbia, che si manifesta della pusillanimità. Secondo la scuola del monachesimo antico, la soluzione alla paura che affligge il pusillanime non risiede nelle rassicurazioni bonarie degli amici e ancor meno nel ricorso alle soluzioni umane della scienza, della politica, della tecnologia. Per non parlare dell'illusoria esortazione a "credere in se stessi", che è invece proprio la causa di questa malattia spirituale. Non c'è che una sola terapia bifronte per il pusillanime: l'umiltà e la confidenza in Dio. La vera umiltà confida audacemente in Dio, la vera confidenza teme il Signore; l'umiltà del pavido non è invece che una forma di larvata incredulità, e la confidenza del temerario un nuovo volto della superbia. Invece, "chi è diventato servo del Signore, teme il proprio padrone, e lui solo; ma chi ancora non lo teme, spesso si spaventa davanti alla sua stessa ombra" (XX,10).
La vittoria della pusillanimità non nasce se non da una continua confidenza nel Signore, tagliando corto su ogni pensiero che possa insinuare che il Signore non è in grado di prendersi cura di noi, o, peggio ancora, che non c'è alcun Dio che ci soccorra. Giovanni Climaco propone un esercizio concreto: "non esitare a recarti in piena notte nei luoghi in cui di solito hai paura, perché se ti lasci andare un po' a questa passione ridicola e infantile, essa finirà per rinvecchiare con te! Mentre ti stai recando là, armati della preghiera e, quando sei arrivato, stendi le braccia e flagella i tuoi nemici con il nome di Gesù: non esiste infatti arma più potente né in cielo né in terra!"(XX,6). A noi figli del secolo che ha fatto ironicamente della sicurezza il principio di ogni cosa, la semplice idea di seguire questo consiglio fa scatenare tuttala contraerea di obiezioni piene di "ragionevolezza": occorre essere prudenti, non bisogna tentare Dio, quei tempi non sono come i nostri, la preghiera sola non basta, in televisione hanno detto che sono aumentati i lupi e gli orsi. E così via, in un'infinita serie di litanie traboccanti della sapienza di questo mondo, che inibiscono la litania del ricorso a Dio.
Eppure, San Giovanni Climaco non ha dubbi sull'efficacia della terapia e nemmeno sul modo per non perdere più la sanità dell'anima: "una volta guarito da questa malattia, eleva un canto a colui che ti ha liberato, perché se gli dimostrerai gratitudine, egli ti proteggerà in eterno" (Ibi).
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