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« Torna agli articoli di Magdi Cristiano Al
«Nel nome del Dio unico»: così il presidente dell'Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia), Mohamed Nour Dachan, ha introdotto il discorso pronunciato il 10 aprile ai solenni funerali di Stato per le vittime del terremoto in Abruzzo, sentenziando che musulmani e cristiani sono «uniti come religiosi e cittadini che hanno in comune speranze e ideali».
La tesi del Dio unico si è tradotta, come riferisce Barbara Uglietti sull'Avvenire del 12 aprile, nella partecipazione di cristiani e musulmani ai riti preparatori e alla messa di Pasqua nella chiesa cattolica della Sacra Famiglia di Gaza, condividendo la preghiera «perché il rosario è lo stesso», secondo il parroco Manuel Musallam.
Ma È proprio vero che Ebraismo, Cristianesimo e Islam credono nello stesso Dio, al punto che i fedeli possono pregare insieme in sinagoga, in chiesa o in moschea? È da qui che dobbiamo partire per affrontare alla radice la piaga ideologica del relativismo che, accantonando l'uso della ragione affinchè non si entri nel merito dei contenuti, ha finito per mettere sullo stesso piano differenti religioni, culture e valori.
La verità è che, pur nella fede del Dio unico professata dalle religioni monoteiste, non è affatto vero che si crede e si prega lo stesso Dio. Per l'Ebraismo, Yahweh è un Dio talmente unico e inaccessibile che il suo nome non può essere né pronunciato né scritto; per il Cristianesimo Dio è uno e trino (Padre, Figlio e Spirito Santo); per l'Islam, Allah è un Dio cui nessuno è pari», che «non generò e non fu generato».
Così come è infondato il luogo comune delle «religioni del Libro». Questa definizione è corretta solo per l'Islam dove si venera il Corano «increato» al pari di Dio, mentre per il Cristianesimo e l'Ebraismo non lo è affatto perché i Vangeli e la Torah sono testi «creati» da uomini ispirati da Dio.
Inoltre è infondato il luogo comune delle «religioni abramitiche», perché la verità è che l'Abramo coranico non ha nulla a che fare con l'Abramo biblico, venendoci presentato come un personaggio che sarebbe vissuto nella Penisola Arabica dove avrebbe fondato il culto monoteista alla Mecca.
È lo stesso Benedetto XVI, anche nella sua lettera pubblicata nel libro di Marcello Pera "Perché dobbiamo dirci cristiani", a sostenere che un «vero dialogo» interreligioso «non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede».
Il messaggio è che noi possiamo umanamente e dobbiamo cristianamente amare i musulmani come persone, ma nella consapevolezza che, se crediamo in Gesù Cristo come compimento della profezia e suggello della rivelazione, non possiamo al tempo stesso credere nell'Islam come religione rivelata, considerare il Corano come un tutt'uno con Dio, indicare Maometto come un profeta autentico.
Qui, in Europa, a casa nostra, in questa terra di cristianità che ha saputo dare vita a una civiltà dove i diritti fondamentali dell'uomo sono un patrimonio collettivo, dobbiamo avere il coraggio di essere pienamente noi stessi, affermando a testa alta la verità e salvaguardando con la schiena dritta la libertà, attenendoci all'insegnamento di Gesù: Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi».
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