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« Torna agli articoli di Manue
L’America che vota Obama ha detto no alle nozze omosessuali. Il vescovo di San Diego spiega perché i giovani e i neri non hanno seguito gli spot (e i dollari) delle star hollywoodiane.
La sorpresa è tutta per il bel mondo hollywoodiano e dei mass media che non s’aspettava certo la vittoria del “sì” perché, come ha detto il sindaco di San Francisco, Gavin Newsom, «dove va la California, poi va l’America». Solo che stavolta la California è andata contromano rispetto alle aspettative progressiste, e chissà che il sindaco Newson, gran celebratore di matrimoni fra omosessuali, non si sia pentito di aver vantato l’avanguardia californiana. Il 4 novembre negli Stati Uniti non si è votato solo per le elezioni presidenziali, ma anche per una serie di referendum, tra cui quello californiano sui matrimoni fra persone del medesimo sesso. Ci si doveva esprimere sulla Proposition 8, la risoluzione che chiedeva di annullare la sentenza con cui la Corte suprema in maggio aveva legalizzato nello Stato i matrimoni omosessuali. «È stata una grande vittoria», dice monsignor Salvatore Joseph Cordileone, vescovo ausiliario di San Diego, tra i più attivi in campo cattolico per il “sì”. Cordileone era assai fiducioso sull’esito del voto. «Già nel 2000 si era svolto il referendum e il 61 per cento si era detto contrario al matrimonio omosessuale. Il Protect Marriage (il comitato per il “sì”, ndr) ha svolto un lavoro di informazione porta a porta e noi sapevamo, al di là di quel che era fatto passare sui media, che la maggioranza della popolazione era contraria a riconoscere il matrimonio tra omosessuali».
L’esito del referendum (52 per cento “sì”, 48 “no”) è interessante per diversi motivi. In California Barack Obama ha raccolto il 61 per cento dei consensi, eppure il gruppo etnico che ha maggiormente sostenuto la Proposition 8 è stato quello afro-americano, tanto che oggi sui siti omosessuali si parla espressamente di «tradimento della comunità di colore» che ha scelto Obama come presidente, ma ha seguito l’indicazione di John McCain – per il “sì” – sul referendum. Forse consapevole di ciò, lo stesso candidato democratico era stato piuttosto ondivago sulla questione: ora dichiarandosi contrario al matrimonio omosex, ora sostenendo le istanze dei gay (che ha espressamente ringraziato il giorno della vittoria). I sondaggi hanno rilevato un secondo dato in controtendenza rispetto al luogo comune che vorrebbe i giovani tutti entusiasti sostenitori delle istanze progressiste, e cioè che, come spiega Cordileone, «sono stati proprio gli under trenta il gruppo generazionale che, dall’inizio della campagna elettorale al giorno del voto, più hanno modificato il proprio orientamento, passando dal “no” al “sì”». Il terzo elemento è che i californiani non hanno accettato che fossero i giudici, i mass media e le star a decidere per loro. Dopo il referendum del 2000, infatti, le lobby gay erano tornate a far pressione per far introdurre il matrimonio. Il sindaco di San Francisco, Newsom, aveva iniziato, sull’esempio di quanto accaduto in Massachusetts, a rilasciare licenze matrimoniali per le coppie gay. Sebbene la Corte suprema avesse definito illegittima l’iniziativa, nel settembre del 2005 l’assemblea statale californiana, a maggioranza democratica, aveva modificato il codice di famiglia, aprendo, di fatto, a matrimoni “diversi” da quelli tradizionali. E nel maggio di quest’anno, grazie alla sentenza della Corte suprema, erano partite le celebrazioni delle unioni. «Addirittura, il procuratore generale californiano Jerry Brown, che pure per la sua carica avrebbe dovuto difendere una legge del suo Stato, ha osteggiato in ogni modo il nostro referendum, modificandone il testo che, tendenziosamente, risultava chiedere se si fosse contrari o meno ai “diritti” dei gay».
Tutto questo non è bastato, così come vani sono risultati gli appoggi a favore del “no” di Bill Clinton, Steven Spielberg, Ellen DeGeneres e la sua fresca sposa californiana Portia De Rossi, Brad Pitt (che ha donato alla causa 100 mila dollari), America Ferrera (protagonista di Ugly Betty), oltre che dei proprietari di Google e Apple, e dei quotidiani Los Angeles Times e New York Times. Quella che dal mondo glamour californiano era stata presentata come «la Gettysburg dei diritti civili» – dal nome della battaglia che decise la guerra di Secessione per liberare dalla schiavitù gli Stati del sud – si è rivelata una cocente sconfitta. Tanto che oggi, nei forum online, oltre a denigrare il voto dei neri e la tiepidezza di Obama, si ritorna alla carica mediatica inneggiando all’uscita del film di Gus Van Sant Milk, con protagonista Sean Penn. È la storia dell’attivista e politico Harvey Milk, il primo gay a diventare consigliere comunale a San Francisco, assassinato il 27 novembre 1978.
LA NASCITA DI UN NETWORK
La propaganda delle star oggi fa meno paura al mondo del Protect marriage. «Lo sappiamo – afferma Cordileone – che torneranno ad attaccarci. Possono contare su molti fondi, come hanno dimostrato durante la campagna elettorale quando, in una sola sera, sono riusciti a raccogliere quattro milioni di dollari. E sappiamo che sono molto aggressivi nel sostenere le loro tesi, come è successo nelle ore immediatamente successive al voto quando a Los Angeles un gruppo di manifestanti ha attaccato una chiesa di mormoni». Eppure, dice il vescovo, «per la prima volta abbiamo visto nascere in California un fronte che, senza grandi media e nomi altisonanti, ha saputo muoversi tra la gente – anche noi abbiamo raccolto diversi milioni di dollari – e muovere consensi assai trasversali». Il cuore del Protect marriage è costituito da mormoni, protestanti e cattolici (la Conferenza episcopale californiana si è esplicitamente espressa per il “sì”). «Stiamo discutendo su come proseguire questa esperienza che ci ha unito – spiega Cordileone – in particolare con i fratelli evangelici. Ho sempre sentito dire che la Chiesa è un gigante che dorme e negli ultimi anni, qui in California, mi pareva fosse addirittura in coma. Oggi, però, si è svegliata dal suo torpore».
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