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« Torna agli articoli di Marco Respinti
Si chiama hýbris, e nella tragedia greca, dalla Poetica di Aristotele in poi, traduce l'eccesso per superbia e l'orgoglio che prevarica, conducendo inevitabilmente alla rovina. La desolazione di Smaug, il secondo capitolo della trilogia cinematografica che il regista neozelandese Peter Jackson sta traendo da Lo Hobbit − il quinto lungometraggio, contando i tre de Il Signore degli Anelli, ispirato alle opere narrative più famose di J.R.R. Tolkien −, ne è colmo. Lo scrittore inglese era un aedo dell'introspezione dei cuori che abitano la commedia umana degli errori e il dramma storico del confronto con il destino, uno scaldo nell'affrescare la danza macabra delle vanità e del duetto epico tra l'eroico che si fa quotidiano e il quotidiano che si fa eroico. Solo le letture pusillanimi e superficialmente manichee possono dunque ridurre la sua narrativa (che è la traslitterazione del senso ultimativo del mito sul piano letterario) a un allegoria fantasy dello scontro tra il Bene e il Male, giacché non di questo egli tratta. Tutta la sua produzione letteraria e mitopoietica (perché Tolkien si cimentò a lungo e sapientemente anche con la riscrittura di miti e di saghe) è infatti un continuo interrogarsi sulla morte e sull'immortalità, e i suoi personaggi si muovono costantemente fra caduta e speranza, offrendo una galleria interminabile (nelle sue mille varianti quante sono le sfumature della libertà umana) di possibilità e di misure, di iati e di distanze, di abissi e di corrispondenze fra sé e la realtà più grande; quella che circonda tutti come in un abbraccio, che tutti contiene senza determinare alcuno e che in verità costituisce la vocazione di tutti, la quale – come sempre – può essere assunta e assecondata o rifiutata e sfuggita, oppure persino odiata e combattuta.
La desolazione di Smaug coglie ancora una volta perfettamente l'animo di Tolkien, trasformandosi in un grande quadro narrativo in cui il tema costante è la tentazione a cui nessuno, seppur diversamente, sfugge. La tentazione di rinunciare o di strafare, la tentazione di andarsene o di esagerare, la tentazione di cedere o di redimersi da sé. Il tema è ancora quello del potere, buono o cattivo; anzi, buono e cattivo assieme. Il sapore è quello israelitico, biblico, in cui la regalità è un'arma a doppio taglio, come la spada, che consacra o uccide; un confine che è assieme ponte e barriera; una benedizione e al contempo una sciagura. Ci sono l'esodo e il cammino del ritorno, la patria agognata ma ancora negata, l'orrore e la generosità, i piccoli che diventano grandi e certi grandi che sono meschini, il tutto in un continuo rimescolamento di fronti che dipinge con realismo l'umana vicenda cui nessuno può sottrarsi.
Mai titolo è stato più azzeccato. Questo secondo capitolo cinematografico tratto da Lo Hobbit è infatti il momento della desolazione, quello che la vita spirituale conosce bene e sa non essere un giudizio definitivo di disperazione ma la via stretta senza la quale poi non si spalancherebbe la porta larga delle consolazioni. Ché le consolazioni, come nella vita spirituale, verranno, l'anno prossimo, a Erebor, con il capitolo finale di questa seconda trilogia tolkieniana di Jackson.
Ma c'è un ma. Ed è il rischio, serissimo, che lo spettatore perda clamorosamente l'occasione di questa magnifica meditazione, distratto dal film stesso. Una definizione de La desolazione di Smaug? Troppo. Troppo lungo questo secondo lungometraggio e troppo lunga l'intera operazione (bastavano certamente due film); troppo inutilmente lunghe certe sequenze e troppo, troppo corte altre, fin quasi alla banalizzazione (Beorn); troppi combattimenti − e troppo lunghi − e troppi elfi, così come troppo Radagast e un re Thranduil troppo esagerato; e soprattutto troppe libertà, al limite della caduta di tono (l'idillio tra il bel nano Kili e la selvaggia elfo femmina Tauriel, o certi dialoghi sgangherati tra il governatore di Pontelagolungo e il suo lacchè, per tacere di una battuta da caserma più contraria a Tolkien che alla decenza).
Il regista Jackson ci ha abituati ad abbondanti interpretazioni e inserti che fino a oggi una loro logica l'hanno avuta; anche il suo Lo Hobbit letto dopo Il Signore degli Anelli, e quindi più "gotico" e dark, in fondo non tradisce lo spirito tolkieniano. Ma ne La desolazione di Smaug la cosa ottiene solo una narrazione distantissima dal testo de Lo Hobbit. Intendiamoci, Jackson eccelle ancora una volta nel dare forma alla Terra di Mezzo: le panoramiche e le ambientazioni sono straordinarie; il regno degli elfi silvani e il regno nanesco sotto la Montagna lasciano a bocca aperta; la fortezza diroccata di Dol Guldur e Pontelagolungo descrivono magnificamente il senso della decadenza che le pervade; e il suo drago Smaug è davvero magnifico. La recitazione di Richard Armitage (Thorin Scudodiquercia) è intensissima, Ian McKellen (Gandalf) sempre impeccabile, Martin Freeman un ottimo Bilbo Baggins e Ken Stott un Balin perfetto. Ma l'ordito del film è un videogame, e quel che ne soffre è la trama narrativa, debole, la più fragile di tutte le prove tolkieniane di Jackson (e la sontuosa colonna sonora cui ci ha abituati il compositore Howard Shore qui è praticamente inesistente). Verrebbe del resto da domandarsi sul serio cosa resti dell'uomo dietro la macchina da presa nel cinema odierno dove tutto è ormai tecnicamente possibile, e dove però tutto abbiamo già visto, il discrimine tra un prodotto e l'altro essendo solo la tecnologia che il budget può permettersi.
Hýbris si diceva. Stavolta Jackson ha esagerato, seducendo lo spettatore solo per abbandonarlo. Un poco più di umiltà e qualche colpo ben assestato di forbice nel lavoro di postproduzione che sta ora ultimando per il capitolo finale dell'impresa farebbero un gran bene, regalandoci l'anno venturo la consolazione dopo la desolazione. Cioè il vero Tolkien.
Nota di BastaBugie: per maggiori informazioni e per vedere il trailer del film "Lo Hobbit 2: la desolazione di Smaug" clicca qui sotto
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