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« Torna agli articoli di Riccardo Michelucci
La storia dell’umanità ha conosciuto innumerevoli genocidi, non si contano i popoli e le etnie sottoposte a stermini, deportazioni ed epocali tragedie, ma forse quello dell’Irlanda rappresenta il caso esemplarmente unico di un paese soggiogato, sfruttato e affamato da una potenza coloniale che per secoli ne ha schiavizzato, deportato e ucciso la popolazione con scientifica regolarità. Fin dall’età tardomedievale gli irlandesi hanno cercato di difendere il loro territorio elevando lo scontro con l’occupante inglese fino a livelli di estrema intensità e consentendo alla propaganda nemica di costruire e alimentare il primo dei grandi miti che caratterizzano da sempre il rapporto tra inglesi e irlandesi: che questi ultimi fossero dei barbari sanguinari, indisciplinati e guerrafondai che potevano essere ' educati' soltanto usando le maniere forti. La rappresentazione del nativo irlandese nelle fattezze di un bruto, con tratti quasi animaleschi, appare molto presto nell’iconografia medievale e attraverso un percorso evolutivo contribuisce nel corso dei secoli alla nascita e allo sviluppo di un razzismo anti-irlandese che sopravvive ancora oggi in Gran Bretagna. E proprio questa immagine ha contribuito in modo determinante a nascondere la realtà di un colonialismo spietato consentendo alla classe dirigente inglese di giustificare il proprio operato nella vicina isola.
La missione 'civilizzatrice' di Oliver Cromwell, che alla metà del XVII secolo sbarcò in Irlanda per dare una lezione ai nativi «barbari e assetati di sangue» e la decisione del governo di Londra di inviare, nell’agosto 1969, migliaia di soldati nel nord Irlanda, ultimo, microscopico relitto dell’Impero i cui abitanti chiedevano uguaglianza e pari opportunità come i neri d’America, rappresentano due stelle polari che - seppur separate da tre secoli di storia - spiegano con estrema chiarezza i sentimenti degli inglesi nei confronti delle popolazioni dell’isola vicina. Tuttavia il disprezzo successivamente trasformato in vero e proprio razzismo nei confronti della presunta inferiorità degli irlandesi, affonda le proprie radici molti secoli prima dell’epoca di Cromwell e costituisce l’alibi della plurisecolare esperienza coloniale. È possibile individuare un ipotetico punto di partenza nel lontano XII secolo, in epoca normanna, quando ancora né l’Inghilterra né tanto meno l’Irlanda rappresentavano entità statuali compiute in senso moderno. Ma la fase di non ritorno, l’incancrenimento definitivo di una storia destinata ad arrivare tristemente fino ai giorni nostri può essere invece individuata alcuni secoli più tardi, all’inizio dell’era elisabettiana, quando le plantation di coloni inglesi e scozzesi sul suolo irlandese avrebbero creato le condizioni per la nascita di un’identità protestante all’interno di un paese fino ad allora totalmente cattolico. Il periodo della riforma anglicana coincide con una svolta decisiva nella politica inglese in Irlanda non solo perché da quel momento in poi il papato non sarà più alleato della Corona, ma anche perché nascerà quell’identificazione tra religione cattolica e cultura gaelica destinata a introdurre il pernicioso e fuorviante elemento religioso nella lotta politica.
In Irlanda le divergenze confessionali appaiono tuttavia la conseguenza - più che la causa - del disegno egemonico inglese e per questo la definizione di 'guerra di religione' appare inadeguata non soltanto oggi, ma anche nelle precedenti fasi storiche del conflitto. Non è d’altra parte casuale che i primi sedici re inglesi che si impegnarono nella conquista dell’Irlanda fossero cattolici. A partire dall’Alto Medioevo, l’intero sviluppo storico dell’Irlanda è stato condizionato dalla violenta ingerenza del potente vicino. Per questo motivo non è corretto affermare l’esistenza di una 'questione irlandese' ma più propriamente di una tragica e interminabile ' questione anglo-irlandese'.
Quando i soldati di Sua Maestà sbarcarono in Irlanda nel 1969 all’alba della nuova, cruenta fase del conflitto, la popolazione inglese era davvero convinta che dietro l’intervento di Londra non vi fosse alcun interesse se non quello di ristabilire la pace tra la comunità cattolico-nazionalista e quella unionista-protestante. I fatti avrebbero poi dimostrato una realtà ben diversa e le persecuzioni, le torture, le uccisioni sommarie di uomini, donne e bambini irlandesi compiute dai soldati e dalle forze speciali inglesi in quegli anni e nei successivi dimostrarono non solo che la 'delega in bianco' consegnata secoli prima ai coloni non bastava più a controllare la turbolenta provincia dell’(ex) Impero, ma anche che il razzismo anti-irlandese insito nella cultura inglese aveva spinto i soldati di Sua Maestà a macchiarsi di delitti che mai e poi mai avrebbero potuto o voluto compiere a casa loro. I paracadutisti inglesi che sparano su un corteo per i diritti civili a Derry, le forze speciali che uccidono i bambini sparando proiettili di plastica nelle strade o i soldati che freddano alle spalle un ragazzo disarmato dopo avergli controllato i documenti dimostrano essenzialmente due cose: la certezza dell’impunità, cioè la garanzia di non dover essere chiamati a rispondere delle proprie colpe, e soprattutto il profondo disprezzo per un popolo considerato 'inferiore' e dunque da educare e da sottomettere, se non addirittura da annientare. Tutto ciò è accaduto con l’assenso, più o meno tacito, dell’opinione pubblica britannica. In molte occasioni soltanto pronunciare la parola 'irlandese' può suscitare risate o essere usata per definire comunemente comportamenti illogici e incomprensibili. Ancora oggi si tratta di innocue espressioni di ilarità che, spesso inconsapevolmente, sono il retaggio e il rifugio di secoli di violenza e distruzione.
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