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« Torna agli articoli di Riccardo Michelucci
La fase moderna del conflitto anglo-irlandese scoppia nel 1969, con l’arrivo dell’esercito britannico in Irlanda del Nord. La popolazione dei ghetti cattolici, ferocemente discriminata e privata dei più elementari diritti, chiede uguaglianza e democrazia ma viene repressa con la violenza dai militari e dalla polizia, mentre gli unionisti-protestanti scatenano attacchi e pogrom contro le loro case. A partire dal 1970 l’Ira, l’esercito repubblicano irlandese, inizia una campagna militare contro le truppe di Sua Maestà, chiedendone il ritiro immediato dall’isola. Il governo britannico risponde introducendo misure draconiane e una brutale repressione che favorisce l’escalation del conflitto. Il 30 gennaio 1972 i paracadutisti inglesi sparano su un corteo per i diritti civili a Derry, uccidendo quattordici manifestanti disarmati: è la «Domenica di sangue» ( Bloody Sunday), preludio di quello che sarà ricordato come l’«annus horribilis» del conflitto, il 1972, con 497 morti. Terminati gli anni ’ 70 in assoluto i più sanguinosi inizia la fase delle lotte carcerarie dei prigionieri repubblicani che sfocia nello sciopero della fame fino alla morte del 1981, in cui perdono la vita Bobby Sands e altri nove prigionieri irlandesi.
Dopo un lungo e complesso percorso politico che conosce non pochi momenti di stallo, nel 1998 viene firmato a Belfast l’Accordo del Venerdì Santo («Good Friday Agreement») che suggella il processo di pace anglo-irlandese. La fase moderna del conflitto ha causato oltre 3700 morti in poco più di 30 anni: ad opera dell’Ira e di altri gruppi repubblicani irlandesi nel 58% dei casi, ma l’esercito e le forze di sicurezza britanniche si sono rese responsabili del numero più elevato di vittime tra i civili, favorito anche dalle sistematiche collusioni con i gruppi paramilitari protestanti.
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