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L'intolleranza mediatica contro l'editoriale di Lucetta Scaraffia, I segni della morte, sull'"Osservatore Romano" del 3 settembre 2008, suggerisce alcune considerazioni sul tema delicato e cruciale della morte cerebrale.
Tutti possono consentire sulla definizione, in negativo, della morte come "fine della vita". Ma che cos'è la vita? La biologia attribuisce la qualifica di vivente ad un organismo che ha in sé stesso un principio unitario e integratore che ne coordina le parti e ne dirige l'attività. Gli organismi viventi sono tradizionalmente distinti in vegetali, animali ed umani. La vita della pianta, dell'animale e dell'uomo, pur di natura diversa, presuppone, in ogni caso un sistema integrato animato da un principio attivo e unificatore. La morte dell'individuo vivente, sul piano biologico, è il momento in cui il principio vitale che gli è proprio cessa le sue funzioni. Lasciamo da parte il fatto che, per l'essere umano, questo principio vitale, definito anima, sia di natura spirituale e incorruttibile. Fermiamoci al concetto, unanimamente ammesso, che l'uomo può dirsi clinicamente morto quando il principio che lo vivifica si è spento e l'organismo, privato del suo centro ordinatore, inizia un processo di dissoluzione che porterà alla progressiva decomposizione del corpo.
Ebbene, la scienza non ha finora potuto dimostrare che il principio vitale dell'organismo umano risieda in alcun organo del corpo. Il sistema integratore del corpo, considerato come un "tutto", non è infatti localizzabile in un singolo organo, sia pure importante, come il cuore o l'encefalo. Le attività cerebrali e cardiache presuppongono la vita, ma non è propriamente in esse la causa della vita. Non bisogna confondere le attività con il loro principio. La vita è qualcosa di inafferrabile che trascende i singoli organi materiali, dell'essere animato, e che non può essere misurata materialmente, e tanto meno creata: è un mistero della natura, su cui è giusto che la scienza indaghi, ma di cui la scienza non è padrona. Quando la scienza pretende di creare o manipolare la vita, si fa essa stessa filosofia e religione, scivolando nello "scientismo".
Il volume Finis Vitae. La morte cerebrale è ancora vita?, pubblicato in coedizione dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e da Rubbettino (Soveria Mannelli 2008), con il contributo di diciotto studiosi internazionali, dimostra questi concetti in quasi cinquecento pagine. Non solo non può essere accettato il criterio neurologico che fa riferimento alla "morte corticale", perché in essa rimane integro parte dell'encefalo e permane attiva la capacità di regolazione centrale delle funzioni omeostatiche e vegetative; non solo non può essere accettato il criterio che fa riferimento alla morte del tronco-encefalo, perché non è dimostrato che le strutture al di sopra del tronco abbiano perso la possibilità di funzionare se stimolate in altro modo; ma neppure può essere accettato il criterio della cosiddetta "morte cerebrale", intesa come cessazione permanente di tutte le funzioni dell'encefalo (cervello, cervelletto e tronco cerebrale) con la conseguenza di uno stato di coma irreversibile. Lo stesso prof. Carlo Alberto De Fanti, il neurologo che vuole staccare la spina a Eluana Englaro, autore di un libro dedicato a questo argomento (Soglie, Bollati Boringhieri, Torino 2007), ha ammesso che la morte cerebrale può essere forse definita un "punto di non ritorno", ma "non coincide con la morte dell'organismo come un tutto (che si verifica solo dopo l'arresto cardiocircolatorio)" ("L'Unità", 3 settembre 2008). E' evidente come il "punto di non ritorno", posto che sia realmente tale, è una situazione di gravissima menomazione, ma non è la morte dell'individuo.
L'irreversibilità della perdita delle funzioni cerebrali, accertata dall'"encefalogramma piatto", non dimostra la morte dell'individuo. La perdita totale dell'unitarietà dell'organismo, intesa come la capacità di integrare e coordinare l'insieme delle sue funzioni, non dipende infatti dall'encefalo, e neppure dal cuore. L'accertamento della cessazione del respiro e del battito del cuore non significa che nel cuore o nei polmoni stia la fonte della vita. Se la tradizione giuridica e medica, non solo occidentale, ha da sempre ritenuto che la morte dovesse essere accertata attraverso la cessazione delle attività cardiocircolatorie è perché l'esperienza dimostra che all'arresto di tali attività fa seguito, dopo alcune ore, il rigor mortis e quindi l'inizio della disgregazione del corpo. Ciò non accade in alcun modo dopo la cessazione delle attività cerebrali. Oggi la scienza fa sì che donne con encefalogramma piatto possano portare a termine la gravidanza, mettendo al mondo bambini sani. Un individuo in stato di "coma irreversibile" può essere tenuto in vita, con il supporto di mezzi artificiali; un cadavere non potrà mai essere rianimato, neppure collegandolo a sofisticati apparecchi.
Restano da aggiungere alcune considerazioni. Il direttore del Centro Nazionale Trapianti, Alessandro Nanni Costa, ha dichiarato i criteri di Harvard "non sono mai stati messi in discussione dalla comunità scientifica" (" La Repubblica ", 3 settembre 2008). Se anche ciò fosse vero, e non lo è, è facile rispondere che ciò che caratterizza la scienza è proprio la sua capacità di porre sempre in discussione i risultati acquisiti. Qualsiasi epistemologo sa che la finalità della scienza non è produrre certezze, bensì ridurre le incertezze. Altri, come il prof. Francesco D'Agostino, presidente onorario del Comitato Nazionale di Bioetica, sostengono che, sul piano scientifico, la tesi contraria alla morte cerebrale "è ampiamente minoritaria" ("Il Giornale", 3 settembre 2008). Il prof. D'Agostino ha scritto belle pagine in difesa del diritto naturale e non può ignorare che il criterio della maggioranza può avere rilievo sotto l'aspetto politico e sociale, non certo quando si tratta di verità filosofiche o scientifiche. Intervenendo nel dibattito, una studiosa "laica" come Luisella Battaglia osserva che "il valore degli argomenti non si misura dal numero delle persone che vi aderiscono" e "il fatto che i dubbi siano avanzati da frange minoritarie non ha alcuna rilevanza dal punto di vista della validità delle tesi sostenute" ("Il Secolo XIX", 4 settembre 2008). Sul piano morale poi l'esistenza stessa di una possibilità di vita esige l'astensione dall'atto potenzialmente omicida. Se esiste anche solo il dieci per cento che dietro un cespuglio vi sia un uomo, nessuno è autorizzato ad aprire il fuoco. In campo bioetico, il principio in dubio pro vita resta centrale.
La verità è che la definizione della morte cerebrale fu proposta dalla Harvard Medical School, nell'estate del 1968, pochi mesi dopo il primo trapianto di cuore di Chris Barnard (dicembre 1967), per giustificare eticamente i trapianti di cuore, che prevedevano che il cuore dell'espiantato battesse ancora, ovvero che, secondo i canoni della medicina tradizionale, egli fosse ancora vivo. L'espianto, in questo caso equivaleva ad un omicidio, sia pure compiuto "a fin di bene". La scienza poneva la morale di fronte a un drammatico quesito: è lecito sopprimere un malato, sia pure condannato a morte, o irreversibilmente leso, per salvare un'altra vita umana, di "qualità" superiore?
Di fronte a questo bivio, che avrebbe dovuto imporre un serrato confronto tra opposte teorie morali, l'Università di Harvard si assunse la responsabilità di una "ridefinizione" del concetto di morte che permettesse di aprire la strada ai trapianti, aggirando le secche del dibattito etico. Non c'era bisogno di dichiarare lecita l'uccisione del paziente vivo; era sufficiente dichiararlo clinicamente morto. In seguito al rapporto scientifico di Harvard, la definizione di morte venne cambiata in quasi tutti gli Stati americani e, in seguito, anche nella maggior parte dei Paesi cosiddetti sviluppati (in Italia, la "svolta" fu segnata dalla legge 29 dicembre 1993 n. 578 che all'art. 1 recita: "La morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni del cervello").
La natura del dibattito non è dunque scientifica, ma etica. Che questa sia la verità lo conferma il senatore del PD Ignazio Marino che in un articolo su "Repubblica" del 3 settembre definisce l'articolo dell'"Osservatore Romano" "un atto irresponsabile che rischia di mettere in pericolo la possibilità di salvare centinaia di migliaia di vite grazie alla donazione degli organi". Queste parole insinuano innanzitutto una menzogna: quella che il rifiuto della morte cerebrale porti alla cessazione di ogni tipo di donazione, laddove il problema etico non riguarda la maggior parte dei trapianti, ma si pone solo per il prelievo di organi vitali che comporti la morte del donatore, come è il caso dell'espianto del cuore. Ciò spiega come Benedetto XVI, che ha sempre nutrito riserve verso il concetto di morte cerebrale, si sia a suo tempo detto favorevole alla donazione di organi. Il vero problema è che il prezzo da pagare per salvare queste vite è quello tragico di sopprimerne altre. Si vuole sostituire il principio utilitaristico secondo cui si può fare il male per ottenere un bene, alla massima occidentale e cristiana secondo cui non è lecito fare il male, neppure per ottenere un bene superiore. Se un tempo i "segni" tradizionali della morte dovevano accertare che una persona viva non fosse considerata morta, oggi il nuovo criterio harvardiano pretende di trattare il vivente come un cadavere per poterlo espiantare. A monte di tutto questo sta quel medesimo disprezzo per la vita umana che dopo avere imposto la legislazione sull'aborto vuole spalancare la strada a quella sull'eutanasia.
DOSSIER "DONAZIONE DI ORGANI"
L'inquietante concetto di "morte cerebrale"
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