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« Torna agli articoli di Rodolfo Casa
La tabella di marcia del califfato è già decisa. Dopo che avranno consolidato il controllo del territorio che va da Aleppo nel nord della Siria a Diyala alle porte di Baghdad (Iraq), gli uomini dello Stato islamico di Abu Bakr al Baghdadi rivolgeranno le loro attenzioni all'Arabia Saudita, dove occuperanno La Mecca e Medina e detronizzeranno la dinastia dei Saud, al potere da 82 anni. Poi rivolgeranno le loro armi contro l'Iran, potenza di riferimento degli odiati sciiti. Vinta anche quella guerra, le armate muoveranno contro l'Occidente, di cui Roma rappresenta l'epitome. Finalmente giungeranno gli ultimi giorni del mondo, e i guerrieri musulmani attaccheranno e riconquisteranno anche Gerusalemme.
FANTAPOLITICA?
Onirismo apocalittico? Forse, ma intanto è il programma che sta scritto su Dabiq, la pubblicazione ufficiale dell'Isil. E ricalca un hadith, cioè una frase attribuita al profeta: «Invaderete la Penisola arabica, e Allah vi darà la forza per conquistarla. Poi invaderete la Persia, e Allah vi darà la forza per conquistarla. Poi invaderete Roma, e Allah vi darà la forza per conquistarla. Quindi combatterete il Dajjal, e Allah vi darà la forza per sconfiggerlo». Il Dajjal è una specie di versione islamica dell'Anticristo, la cui apparizione coincide con l'approssimarsi della fine del mondo. Negli ultimi giorni è collocata anche la battaglia decisiva contro gli ebrei, come si desume sempre dalla lettura di Dabiq: «È solo questione di tempo prima che lo Stato islamico raggiunga la Palestina per combattere i barbari giudei e uccidere quelli di loro che si nascondono dietro gli arbusti di gharqad, che sono gli alberi dei giudei».
Ora, un notissimo hadith di Maometto spiega che «la fine del mondo non arriverà fino a quando i musulmani non combatteranno e uccideranno gli ebrei; e gli ebrei si nasconderanno dietro ai sassi e agli alberi, e i sassi e gli alberi chiameranno: "O musulmano, o servo di Allah, c'è un ebreo nascosto dietro di me. Vieni e uccidilo". Tranne l'albero di ghardaq, che è l'albero degli ebrei». Dunque la presa di Gerusalemme è rimandata ai tempi escatologici. Più o meno come la sfida ai cosiddetti paesi cristiani: «Lo Stato islamico», si legge sulla pubblicazione dell'Isil, «è una meraviglia della storia che è sorta solo per preparare la strada alla al-Malhamah al-Kubra», che sarebbe la grande battaglia contro i "crociati" fissata pure quella per la fine dei tempi.
PRIMA DEL GIUDIZIO UNIVERSALE
Naturalmente l'ordine dei lavori potrebbe subire cambiamenti se gli Stati Uniti e i paesi europei si incaponissero a continuare a bombardare dall'alto i guerrieri del califfato. L'Isil si vedrebbe costretto a organizzare attentati nelle terre degli infedeli a scopo di deterrenza, per rappresaglia e per potere ricattare i governi: fatela finita coi bombardamenti aerei, se non volete altri attacchi alle metropolitane e ai parlamenti. Ma l'assalto all'Arabia Saudita, quello in nessun caso è rinviato al giorno del Giudizio universale, quello è in cartellone per davvero. E non semplicemente perché si tratta del paese dove si trovano i luoghi santi dell'islam, o per i suoi pozzi di petrolio, o per i miliardi di petrodollari. No: il califfo di Mosul vuole defenestrare i Saud perché li considera dei rinnegati, dei traditori della giusta causa, dei voltagabbana.
Perché il fatto è proprio questo: la monarchia assoluta araba alleata da settant'anni con gli americani e la nascente potenza politico-militare islamica che sta sconvolgendo il Medio Oriente e vuole mettere la parola fine al potere dell'Occidente sono rami dello stesso albero, quello del wahabismo. Cioè l'ideologia politico-religiosa e la somma di scorrerie militari che sono all'origine dell'Arabia Saudita attuale. La differenza sta nel fatto che i re sauditi non hanno avuto il coraggio di essere coerenti fino in fondo e hanno accettato alcuni compromessi col mondo moderno, mentre i jihadisti di al Baghdadi intendono portare alle estreme conseguenze il verbo di Mohamed ibn Abdel Wahhab, lo studioso e predicatore settecentesco il cui programma di riforma dell'islam in senso fondamentalista e guerrafondaio ebbe un iniziale successo grazie all'alleanza con le armi di Mohamed bin Saud, il fondatore del primo stato saudita, alla fine del XVIII secolo.
MONOTEISMO RADICALE
Naturalmente le autorità di Riyadh, a cominciare dall'anziano re Abdullah, negano vigorosamente che l'Isil abbia a che fare col modo in cui la religione è praticata e applicata alla vita quotidiana nel più grande paese della penisola arabica. Ma alcune similitudini balzano agli occhi anche del più superficiale degli osservatori: l'Arabia Saudita è l'unico paese al mondo dove le sentenze capitali vengono eseguite in pubblico e consistono nella decapitazione dei condannati; ed è anche l'unico paese al mondo dove tutte le religioni differenti da quella promossa e praticata dalle autorità sono ufficialmente proibite. La somiglianza con quello che avviene nel territorio del proclamato califfato è palese.
La prova inoppugnabile della parentela però è un'altra: nelle scuole funzionanti nei territori controllati dall'Isil sono stati introdotti testi di studio ortodossi dal punto di vista wahabita, che sono gli stessi utilizzati nelle scuole saudite. Sui camioncini della propaganda religiosa che circolano nel califfato sono appiccicati adesivi e manifesti con testi degli autori wahabiti. Il dipartimento responsabile dell'educazione organizza corsi di formazione religiosa nei quali i testi di riferimento sono gli scritti di Mohamed bin Abdel Wahhab: Il libro dell'unità di Dio, Il chiarimento dei dubbi e Le cose che annullano l'islam. Le biografie dei leader passati e presenti dell'attuale Isil, soprattutto quelle di Abu Omar al Baghdadi e dell'attuale capo Abu Bakr al Baghdadi, attestano che essi hanno assorbito il wahabismo e lo padroneggiano in ogni dettaglio.
Il contenuto centrale dell'interpretazione wahabita dell'islam è un monoteismo radicale. Tutto ciò che non coincide con l'adorazione esclusiva di Allah, è considerato da Abdel Wahhab idolatria. Perciò non sono veri musulmani quelli che, pur praticando i cinque precetti, si rivolgono ai santi, agli angeli o ai loro defunti nella preghiera, visitano le tombe o i santuari dedicati a santi e profeti del passato, festeggiano la nascita di Maometto. Né sono musulmani coloro che creano leggi o obbediscono a leggi diverse da quelle islamiche, o si rivolgono a tribunali diversi da quelli islamici. Lo stesso dicasi di coloro che non definiscono infedeli i cristiani, gli ebrei, i politeisti e gli atei.
Tutte queste cose annullano l'adesione all'islam di coloro che le compiono. Perciò chi le pratica diventa a sua volta un infedele (kaffir), anche se si professa musulmano. Per lui vale il takfir, l'equivalente islamico della scomunica. E la conseguenza del takfir è che chi ne è colpito può essere legittimamente ucciso, le sue mogli e le sue figlie violentate e le sue proprietà confiscate. Ogni scorreria contro gli idolatri (dichiarati tali attraverso il takfir) e le loro proprietà diventa automaticamente jihad, e chi perde la vita in tali combattimenti è considerato un martire destinato al paradiso e alle sue godurie.
LA NASCITA DEL WAHABISMO
Il connubio fra questo pensiero e il braccio armato rappresentato dai guerrieri della tribù capeggiata da Mohamed bin Saud ha prodotto la tempesta perfetta da cui nacque il primo stato saudita, fra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento, inclusivo di quasi tutta la Penisola arabica e della Mecca. Nel 1817 gli ottomani ripresero il controllo della situazione, ma ormai il wahabismo era nato. Nel 1902 quello che sarebbe diventato il primo re dell'Arabia Saudita, Abdelaziz, lanciò la rivolta armata degli Ikhwan, improntata allo spirito wahabita, che con 52 grandi battaglie condotte in un arco di trent'anni portò alla creazione del terzo, tuttora esistente, stato saudita. Per consolidarlo come stato dovette però scendere a compromessi con modernità e infedeli, e ciò lo portò a scontrarsi con gli stessi Ikhwan, che dovette massacrare senza pietà.
Da allora la vicenda storica dell'Arabia Saudita è sempre stata caratterizzata da questa dualità, che spesso è duplicità, fra istituzionalizzazione e modernizzazione del potere da una parte, rivoluzione e fondamentalismo dall'altra. L'elemento wahabita radicale è riemerso in successive insurrezioni armate, di cui la più nota è l'occupazione della grande moschea della Mecca nel 1979. Dopo di allora la politica della monarchia è consistita nel deviare verso l'esterno le energie rivoluzionarie, finanziando moschee e centri islamici di stretta osservanza wahabita in tutto il mondo (il solo re Fahd costruì 1.359 moschee all'estero e finanziò 2.400 scuole e collegi), esportando imam estremisti e combattenti jihadisti a partire da quelli che combatterono nell'Afghanistan occupato dai sovietici e poi rifluirono in al Qaeda, e armando e finanziando ogni gruppo salafita e jihadista deciso a prendere il potere in un paese musulmano (l'ultimo caso è quello della Siria).
Le insurrezioni interne sono sempre state soffocate senza pietà, ultima in ordine di tempo quella suscitata da al Qaeda. Con l'Isil però si è creata una situazione nuova. Lo Stato islamico è certamente un fenomeno di radicalismo wahabita, e lo era fin dal suo inizio, quando si dedicava solo all'Iraq e l'allora leader Abu Omar al Baghdadi scriveva nel 2006 che l'obiettivo dello Stato era di promuovere il monoteismo, «il bisogno di demolire e rimuovere tutte le manifestazioni del politeismo e proibire le sue forme, il bisogno di fare ricorso alla legge di Dio facendo ricorso alle corti islamiche dello Stato islamico, perché ricorrere all'idolatria delle leggi secolari sarebbe un motivo di annullamento dell'islam». Ha agito sul campo come agirono i guerrieri di Mohamed bin Saud e poi gli Ikhwan, cioè ha sottomesso i nemici col terrore, razziato i loro beni e conquistato territori, e ora promette di detronizzare i Saud con un'azione dall'esterno. Il fatto che abbia vendicato i sunniti dell'Iraq, emarginati dal governo pro-sciita di Baghdad, ha generato simpatie fra i cittadini sauditi.
Ora si tratta di capire di quanto consenso goda nel paese e su quali forze possa fare leva. In uno stato chiuso e autoritario come l'Arabia Saudita le inchieste demoscopiche affidabili sono praticamente inesistenti. In luglio era circolata la notizia che un sondaggio condotto su Twitter aveva dato come risultato che il 92 per cento dei sauditi giudicherebbe l'Isil «coerente coi valori dell'Islam e della legge islamica». Invece un sondaggio commissionato dal Washington Institute for Near East Policy e pubblicato all'inizio di ottobre avrebbe rivelato che solo il 5 per cento dei sauditi simpatizza con il califfato. I sauditi che sono entrati nelle file dell'esercito di al Baghdadi sarebbero 7 mila, cioè circa un terzo di tutti i suoi attuali combattenti.
LA PROPAGANDA JIHADISTA
Quanto siano preoccupate le autorità di Riyadh, che da marzo hanno inserito lo Stato islamico nell'elenco delle organizzazioni terroriste, lo si comprende dalla mobilitazione di tutti i media e di tutti gli sceicchi e predicatori del regno (sono circa 70 mila) in una campagna volta a diffondere capillarmente l'idea che l'Isil va contro la legge islamica e merita di essere condannato. Quel che preoccupa i regnanti sono i video propagandistici nei quali i combattenti dell'Isil di origine saudita stracciano il passaporto mentre dichiarano che la famiglia regnante è kaffir tanto quanto gli sciiti o gli alawiti siriani. Molti di essi provengono dalle tribù che da sempre rappresentano il nerbo dell'esercito saudita: gli Otaibah, gli Shammar, gli Harb. Ciò fa nascere interrogativi intorno alla lealtà dell'esercito in caso di crisi.
Come ha scritto Alastair Crooke, diplomatico britannico e agente dell'intelligence militare esperto di questioni islamiche: «L'Isil può essere visto come un movimento correttivo del wahabismo contemporaneo. Mentre la monarchia saudita fioriva grazie al petrolio e diventava un'istituzione ipertrofica, l'attrattiva del messaggio purista degli Ikhwan guadagnava terreno e il sostegno di molti uomini. Oggi la delegittimazione della monarchia non è vista come un problema, ma come un ritorno alle vere origini del progetto saudita-wahabita».
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