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« Torna agli articoli di don Giampaolo Dianin
Il termine "talenti" è entrato nel nostro linguaggio comune ad indicare le doti e le capacità di ciascuno e quindi il dovere di farle fruttificare proprio come avviene in ambito economico dove bisogna investire saggiamente per avere un buon profitto. Ai ragazzi diciamo che devono aver fiducia delle loro capacità, che non devono accontentarsi di "sopravvivere", ma devono puntare in alto.
In realtà la parabola evangelica dà al termine talento un altro significato: Il Padrone "diede a ciascuno secondo le sue capacità". I talenti sono le responsabilità e i compiti che ci vengono affidati e sui quali si gioca la nostra vita. Ecco i compiti di una persona sposata, di un padre e una madre, di un imprenditore o di un operaio, fino agli impegni pastorali. Ci sono compiti e responsabilità grandi e piccole ma a ciascuno Dio non chiede altro se non di essere un buon "imprenditore della vita".
DIO CI AFFIDA DEI TALENTI
Sono tua moglie, i figli, l'impegno educativo, il lavoro, la terra, la vita sociale, l'impegno nella Chiesa. Dio ci consegna la vita non come un peso e una condanna, ma come un dono, una grazia, una benedizione e una grande opportunità per noi e per gli altri.
Dio ci affida anche un altro talento che è la nostra responsabilità di cristiani. A noi il compito di essere testimoni del vangelo, di viverlo fino in fondo, dentro le realtà della nostra vita quotidiana. In Cristo ci viene rivelato e consegnato il volto pieno di Dio e dell'uomo (GS 22), il segreto della vita, il senso della storia, perché possa fruttificare in noi e attraverso di noi possa fecondare quella piccola parte di mondo nella quale siamo chiamati a vivere.
LA SANA STIMA DI NOI STESSI
Gli scaffali dedicati ai libri di psicologia sono pieni di volumi che affrontano la questione dell'autostima che sembra essere uno dei problemi di tante persone di fronte ad una società che chiede molto e che ti fa sentire spesso inadeguato. Dio ci conosce nel profondo e non ci dà compiti che non riusciremmo a realizzare. Dovremmo tutti avere una sana stima di noi stessi prima di tutto perché esistiamo e siamo frutto di un amore che ci ha pensati e voluti e guardare alla nostra vita in termini vocazionali cioè come la risposta alla chiamata di Dio.
Tutto il racconto evangelico ci porta a concentrarci sul terzo servo. I primi due sono l'immagine dell'operosità e dell'intraprendenza, amano la vita e si spendono senza timore; il terzo appare invece pieno di paura e diventa anche pigro e passivo. Non vuole correre rischi, preferisce conservare e seguire la strada sicura.
A lui la 1ª lettura oppone la figura di una donna saggia, che possiamo ammirare come si contempla un'opera d'arte. Lei è operosa, intraprendente, degna di fiducia. Lavora e si impegna senza perdersi nella cura dell'esteriorità. Alla luce del vangelo possiamo dire che a lei Dio ha affidato un marito e una famiglia e lei traffica fino in fondo il talento della vita familiare e della quotidianità. Un talento apparentemente piccolo, ma quella donna agli occhi di Dio è colei a cui molto sarà dato perché è stata fedele a ciò che gli è stato affidato.
VIVERE FINO IN FONDO
Possiamo dire che il compito che Dio ci affida non è quello di essere perfetti, ma semplicemente, se così si può dire, di vivere fino in fondo, di accettare il rischio della vita senza sprecarla e nemmeno con la sola preoccupazione di non farci del male.
Sposarsi, mettere al mondo un figlio, educare alla fede, iniziare un'attività economica, è rischioso. Credere, pregare, testimoniare, amare, perdonare, anche questo è impegnativo e rischioso. Anzi dobbiamo riconoscere che c'è la possibilità di sbagliare perché ci sono matrimoni che falliscono e figli che prendono altre strade; ma certamente nascondersi, o pensare, come Pinocchio, che seppellendo i talenti nel campo dei miracoli questi porteranno frutto, è da ingenui.
I talenti diventano così un dono ma anche una responsabilità, perché tutto è insieme dono e compito. Quella cristiana è un'etica della responsabilità cioè della risposta che oggi dobbiamo dare alla nostra coscienza e agli altri, e un giorno dovremo dare a Dio che non ci chiederà cose straordinarie ma se abbiamo vissuto fino in fondo la nostra vita.
COSA VUOLE DIO DA ME?
Il cuore della parabola e la chiave che potrebbe sbloccare la situazione del terzo servo è il rapporto tra lui e il padrone, tra Dio e ciascuno di noi. Il terzo servo dice: "Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ho avuto paura e ho nascosto quanto mi hai dato sottoterra: ecco prendi quello che mi hai dato!"
Mentre i primi due servi si sentono stimolati ad agire e non hanno paura del padrone perché lo conoscono e si fidano, il terzo servo rimane condizionato solo dalla paura che lo paralizza. Ha un'immagine di Dio come giudice severo e implacabile. Ha paura di perdere il talento, di essere giudicato e condannato per questo. E così non vuole sporcarsi le mani, ha paura di compromettersi o di sbagliare, non vuole rischiare, diventa pigro, si chiude, si nasconde nell'anonimato, si mimetizza omologando la propria identità cristiana al vivere mondano. È il comportamento di chi dice: "Non faccio male a nessuno, cosa vuole Dio da me?".
L'amore ha la capacità di mettere in moto la vita, e l'amore di Dio ci può far alzare in piedi per assumerci la responsabilità della vita senza fughe, senza timori ma con coraggio, passione e intraprendenza. La consapevolezza che alla fine Dio ci domanderà di consegnare la nostra vita con dei frutti non ci deve far paura, ma può essere una giusta provocazione per non sederci.
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