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Oltre dieci anni trascorsi, da presidente del Coordinamento internazionale delle associazioni a tutela dei diritti dei minori, a scovare siti pedopornografici e a denunciarli alla polizia e come «premio» finale ecco arrivare una condanna a 1.200 euro di multa per la «detenzione» di materiale hard. Lo stesso sempre «girato» agli investigatori come prova. Ma Aurelia Passaseo, «profondamente amareggiata» per la sentenza del tribunale di Pordenone, promette di passare al contrattacco: «Faremo appello, non finisce qui». «È una sentenza che mi lascia basito», ha commentato don Di Noto, fondatore dell’associazione Meter, da anni impegnato nella lotta alla pedofilia on line. «Naturalmente parlo senza conoscere gli atti - ha poi aggiunto -, ma in compenso conosco da anni Aurelia Passaseo, la serietà del suo impegno e la dedizione con cui lavora». Aldilà della sentenza, però, sono gli eventuali effetti a preoccupare. «È un precedente gravissimo, così si uccide il volontariato», ha detto la presidente del Coordinamento condannata ricordando che adesso anche i singoli cittadini-internauti che dovessero imbattersi in immagini o filmati hard potrebbero far finta di niente («chi glielo farà fare di denunciare se il rischio è quello di ritrovarsi indagati?»). L’incubo della Passaseo iniziò nel 2003, quando finì tra gli oltre 300 indagati dell’inchiesta Pedoland. «Ricordo bene quella mattina - ha ammesso la Passaseo-: i carabinieri mi tirarono giù dal letto all’alba, sventolandomi sotto il naso un mandato di perquisizione della procura di Acqui Terme e portandosi via due pc, floppy e carte. La mia colpa? Aver visitato un sito contenente un listino dettagliato di video pedopornografici, con tanto di prezzi e condizioni di acquisto. Sito naturalmente denunciato alla polizia postale e alla procura di Ivrea». Era però convinta «che tutto si sarebbe chiarito», e invece tra richieste di archiviazione respinte, udienze e perizie ieri è arrivata la condanna.
«Per il giudice - spiega Renato Cattarini, difensore della Passaseo - il materiale è stato scaricato e salvato, quindi il reato esiste. L’evidente buona fede? Non vale niente. Così come il fatto che un pm si sia presentato in aula: “Sapevamo del suo lavoro, anzi la incoraggiavamo a proseguire”. Tutto inutile».
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