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Diritti umani in Cina la Ue fa la mossa giusta.
Il Premio Sakharov che il Parlamento europeo ha deciso di consegnare all’attivista cristiano Hu Jia (attualmente nelle prigioni di Pechino) ha un valore altissimo. Anzitutto, per la stessa personalità del vincitore. Hu è noto per la sua lotta a favore dei malati di Aids ( il cui numero in Cina è «un segreto di Stato»), ma soprattutto perché egli è divenuto una sorta di punto di riferimento della dissidenza non violenta: quando era libero, ha raccolto documentazione, messo in contatto contadini espropriati di terre con avvocati volenterosi; ha inviato ai media internazionali e alle ambasciate materiale sulle violazioni dei diritti umani commesse dal Partito comunista; e, più recentemente, ha difeso i cittadini di Pechino le cui case sono state espropriate per preparare le Olimpiadi.
Hu è divenuto il tessitore di una rete che abbraccia tutte le situazioni di ingiustizia e di impegno democratico in Cina, sfidando il potere che invece tenta di reprimere e soffocare ogni rivolta e ogni critica a livello locale, prima che si diffondano a livello nazionale. Da tempo controllato dalla polizia giorno e notte, è stato arrestato nel dicembre 2007 e condannato in aprile a 3 anni e mezzo di prigione, per «attività sovversiva». Sua moglie Zeng Jinyan e la loro figlia di pochi mesi sono agli arresti domiciliari, spesso impossibilitate anche a fare una passeggiata o la spesa. Agli occhi di Pechino Hu è «un criminale» e per questo ha fatto di tutto perché non venisse insignito del Premio Nobel per la Pace (cui era candidato), minacciando poi l’Unione europea di «pesanti conseguenze» se gli avesse conferito il Premio Sakharov. Il governo di Pechino ha affermato che l’onorificenza è «un’offesa al popolo cinese». I maggiori dissidenti, da Bao Tong a Gao Yaojie, hanno salutato l’attribuzione come «un forte incoraggiamento a chiunque lotti per la libertà e i diritti umani in Cina». Il valore del Premio sta anche nel fatto che è forse la prima volta che l’Unione europea dà un segno di apprezzamento a un dissidente della quarta generazione, quella del boom economico cinese. Dopo il massacro di Tiananmen e l’embargo sulle armi tecnologiche, l’Europa ha infatti posto i diritti umani all’ultimo posto nell’agenda dei rapporti con il gigante asiatico, divenuto un partner commerciale troppo importante. Per questo, a differenza degli Stati Uniti, non ha mai chiesto, se non in modo generico, maggiore democrazia e libertà per gli attivisti cinesi. La quarta generazione della dissidenza usa Internet, cerca le vie legali per combattere le ingiustizie, unisce rivendicazioni a impegno culturale e riflessione, scoprendo la fede cristiana come fondamento delle proprie rivendicazioni. Proprio ciò di cui Pechino ha paura: che si saldi un unico movimento di dissidenza e che esso si unisca ai movimenti religiosi. Ma senza dialogo con questi movimenti, in Cina c’è il rischio di un’implosione e di una guerra civile, che possono distruggere la forza economica acquisita. Appoggiare la dissidenza e valorizzarla come interlocutore del regime è una scelta lungimirante in funzione della stabilità del Paese. Non è un caso che il Premio sia stato dato ad Hu Jia proprio alla vigilia dell’incontro Europa- Asia a Pechino, dove circa 50 capi di governo dell’Europa e del continente asiatico – prima fra tutti la Cina – discutono di interventi per salvare il sistema finanziario mondiale. Forse l’Europa ha scoperto che difendere i diritti umani stabilizza l’economia prima e meglio di qualunque operazione di credito.
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