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Non chiedono soldi, né risarcimenti, ma solo che il mondo si ricordi di loro. Gli ucraini discendenti delle vittime dell’Holodomor, la carestia indotta da Stalin che negli anni Trenta portò alla morte oltre sette milioni di persone, da anni si battono affinché la loro tragedia sia riconosciuta come uno dei grandi genocidi del Novecento. Anche gli ucraini d’Italia, i duecentocinquantamila immigrati regolari, chiedono al nostro Paese un gesto di solidarietà storica. Lo fanno attraverso una lettera aperta inviata ai presidenti delle Camere da Oleksandr Horodetskyy, presidente dell’Associazione cristiana degli ucraini in Italia, che chiede al nostro Parlamento di riconoscere l’Holodomor come 'genocidio del popolo ucraino', di condannare il principale responsabile, Stalin, e – forse il punto più importante – di inserire la conoscenza di quel dramma nei programmi scolastici. In realtà, una bozza di risoluzione orientata proprio in questo senso giace già, da anni, nei cassetti della Camera: si tratta della risoluzione 7/00384 proposta da Gustavo Selva alla commissione Affari esteri e comunitari, con un «iter in corso» (mirabili eufemismi dell’anchilosata burocrazia parlamentare) dal 3 gennaio 2004. Gli ucraini d’Italia vorrebbero un passo più concreto. La catastrofica carestia che colpì l’Ucraina nei primi anni Trenta, raggiungendo il picco tra il 1932 e il 1933, fu la diretta conseguenza della collettivizzazione dell’agricoltura operata dal regime comunista; in Ucraina l’iniziativa si abbatté sulla struttura economica del Paese, largamente agricolo e ripartito in fattorie di proprietà individuale. Nelle campagne furono inviati coloni di stretta fede bolscevica, selezionati tra gli operai industriali delle città, per scalzare i tanti contadini ucraini che si opponevano alla collettivizzazione: i kulaki, come vennero spregiativamente definiti dal regime che li accusava di nascondere il grano. La produttività agricola crollò e il grano inviato a Mosca nel 1932 fu poco più di un terzo di quanto programmato: un deficit che scatenò la repressione bolscevica, prima diretta contro i kulaki e le loro famiglie, con oltre centomila condanne a morte, alla detenzione o alla deportazione nei gulag siberiani, poi con la deliberata decisione di affamare l’Ucraina. L’Unione sovietica aveva già conosciuto una grave carestia nel 1921-1923 e un’altra l’avrebbe afflitta nel 1947, ma mentre queste sono imputabili al collasso infrastrutturale seguito alla Rivoluzione bolscevica o alla Seconda guerra mondiale, quella ucraina del 1932-1933 fu causata da una precisa scelta politica, messa in pratica con apposite azioni amministrative. Stalin e i vertici comunisti 'punirono' l’Ucraina per le resistenze alla collettivizzazione agricola e per il mancato raggiungimento dei livelli di produzione previsti da Mosca, e infatti le misure restrittive si concentrarono contro i contadini di etnia ucraina: una commissione speciale guidata da Vjaceslav Molotov, il futuro ministro degli Esteri, ordinò il 9 novembre 1932 di requisire dai villaggi ucraini non solo il grano, ma anche barbabietole, patate, verdure e ogni altro tipo di cibo; il 6 dicembre il decreto fu rafforzato dal divieto di commerciare generi alimentari e dalla requisizione delle risorse finanziarie.
Apposite brigate effettuarono incursioni nelle fattorie per portar via il grano raccolto, senza tener conto se i contadini avessero cibo sufficiente per nutrirsi o se si lasciavano sementi per la prossima semina; l’intera regione tra il Don e il Caucaso fu isolata dal resto del mondo dalle truppe dell’Nkvd, la polizia politica del regime, e al suo interno si iniziò presto a morire d’inedia. Il bilancio è ancora oggetto degli studi degli storici; la cifra generalmente accolta indica almeno sette milioni di vittime, ma esistono anche stime al ribasso (tre milioni) e al rialzo (fino a dieci milioni).
Tema di dibattito è anche la possibilità stessa di applicare la definizione di 'genocidio' all’Holodomor: tramontate le difese ideologiche che minimizzavano la carestia e la imputavano non a scelte deliberate, ma a errori involontari (e agli stessi kulaki), resta da definire la volontà di colpire un determinato gruppo etnico, o piuttosto un certo gruppo sociale – una 'classe', nel lessico marxista. Anche quest’interpretazione appare però negli ultimi anni in ribasso, e trova sempre maggior credito una lettura dei fatti che insiste sulla specifica volontà di colpire gli ucraini in quanto tali, sia pure identificandoli con i kulaki «nemici del popolo». È questa la posizione sulla quale insistono non solo gli ucraini d’Italia, ma anche lo stesso governo di Kiev, che rimarcano come la carestia indotta si sia affiancata a un processo di russificazione culturale e sprituale che ancora oggi segna l’Ucraina, con un’ampia porzione del Paese ormai abitata da russofoni. Una spina nel fianco nel Paese della Rivoluzione arancione, in bilico tra Europa e Russia, che si appresta a celebrare, il quarto sabato di novembre, il settantacinquesimo anniversario delle stragi.
Per Kiev l’ecatombe fu vero e proprio genocidio, perché prese di mira l’intera etnia ucraina, «rea» di essersi opposta alla collettivizzazione.
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