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Il Consiglio di Stato, nei giorni scorsi, ha espresso un parere quantomeno criticabile, identificando qualsiasi attività di natura economica come finalizzata al lucro. Una logica che, portata alle sue estreme conseguenze, condannerebbe il non profit del nostro Paese alla totale irrilevanza, mortificando le migliori esperienze di creatività imprenditoriale per scopi solidaristici nate in questo ambito. Ed è proprio sulla scia di tale parere che il Ministero dell'Economia e delle Finanze il 19 novembre u.s. ha emanato un Regolamento (Decreto n. 200) che definire assurdo in alcune delle sue parti è probabilmente poco.
Tale decreto, che regolamenta l'esenzione dell'Imu per le unità immobiliari destinate allo svolgimento di attività istituzionali con modalità non commerciali, ha – fra le altre cose - l'amaro sapore di una grave presa in giro nei confronti delle scuole paritarie.
Dopo aver precisato, nell'art. 3, quali sono i requisiti generali perché una attività possa considerarsi non commerciale, il regolamento afferma infatti che le attività didattiche delle scuole paritarie devono essere svolte a "titolo gratuito, ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto conto dell'assenza di relazione con lo stesso".
Ci chiediamo: è uno scherzo o che cosa? Come è possibile pensare che una scuola paritaria – che proprio perché tale è tenuta dalla L. 62/2000 ad ottemperare a numerosi e onerosi obblighi - per riuscire ad essere esentata dall'Imu possa, senza una reale parità scolastica, offrire il suo servizio scolastico ed educativo a titolo gratuito o a fronte di un corrispettivo semplicemente simbolico? L'assurdo, poi, è che una scuola paritaria comunale l'Imu non la deve pagare ma una paritaria privata invece sì, pur facendo esattamente la stessa cosa!
Insomma, non facevano prima a dire semplicemente che le scuole paritarie private non hanno diritto di esistere e pertanto non sono esentate dall'Imu?
Ammessa poi la necessità (citata in premessa al decreto) di adeguarsi ai "parametri di conformità a quelli previsti dal diritto dell'Unione Europea", occorre considerare che in quasi tutti i paesi europei le scuole non statali godono a diverso titolo di finanziamenti pubblici e possono dunque permettersi di praticare una retta semplicemente simbolica ad integrazione del contributo statale. In Italia, invece, la musica è diversa: il finanziamento pubblico della scuola paritaria è irrisorio e, per di più, si limita alle scuole materne e primarie convenzionate. Tutte le altre non godono di alcun sostegno. Sarebbe stato dunque necessario, proprio per adeguarsi all'Europa, procedere nella direzione esattamente opposta a quanto previsto dal Regolamento.
A meno che, là dove si cita il "costo effettivo del servizio" – che nella scuola statale ammonta a una cifra che va dai 6mila agli 8mila euro ad alunno all'anno, in base all'ordine e grado di scuola e senza tener conto di alcune voci di spesa come quelle a carico degli Enti Locali - non si voglia fare riferimento al costo sostenuto dallo Stato. Di fronte a simili cifre, il corrispettivo versato dalle famiglie alle scuole paritarie potrebbe apparire davvero "simbolico"…
Questo Regolamento, in definitiva, rende evidente una volta di più che la situazione italiana sarebbe intollerabile per qualsiasi cittadino e Paese europeo. Mentre altrove le famiglie sono sostenute economicamente nell'esercizio della libertà di scelta educativa, da noi si continua a costringerle a pagare due volte: con le tasse per l'istruzione statale di cui non beneficiano e con le rette – sempre più alte se le scuole vorranno e sapranno sopravvivere - per l'istruzione paritaria. Una visione miope, antistorica e (al di là delle apparenze) sostanzialmente antieuropea, che non porterà nulla di buono per l'economia del nostro Paese e per l'educazione dei nostri giovani.
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