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Per tanto tempo la storiografia sulla schiavitù è stata, per lo più, parziale e incompleta. Per due motivi. Da una parte perché si è privilegiato lo studio dello schiavitù praticata dagli europei e dai coloni americani in età moderna, ingenerando così in molti la convinzione che lo schiavismo sia stato un vizio tipicamente nostrano, una colpa limitata ad una sola epoca e ad alcuni singoli popoli.
Dall'altra perché gli stessi storici che, per motivi ideologici, hanno puntato i riflettori solamente sullo schiavismo europeo, nell'ambito della stessa forma mentis hanno privilegiato, rispetto ad una visione d'insieme, la ricerca di eventuali omissioni della Chiesa cattolica, sovente accusata di non essere stata "sufficientemente" contraria allo schiavismo stesso.
Per questo mi sembra necessario salutare con riconoscenza l'ennesima fatica di Rodney Stark, "A Gloria di Dio" (Lindau), che tra le altre cose tenta di proporre una visione globale dello schiavismo nella storia. Stark, sviscerando e comparando una sterminata quantità di studi famosi, con una lucidità e una capacità di sintesi straordinarie, riassume dunque alcuni fatti fondamentali. La constatazione basilare di Stark è che lo schiavismo "è stata una caratteristica quasi universale della 'civiltà', ma era anche comune in un certo numero di società aborigene sufficientemente ricche da potersela permettere".
ROMA E ATENE
Anche Roma e la Grecia antiche prevedevano "un uso estensivo del lavoro degli schiavi", considerati oggetti, beni di proprietà, e come tali privi di qualsiasi diritto e sottoposti all'arbitrio più totale da parte dei padroni. Si può aggiungere, come ampiamente dimostrato da Aldo Schiavone in "Spartaco. Le armi e l'uomo", che in epoca pagana non esisteva neppure il sospetto che la schiavitù in quanto tale fosse iniqua: i ribelli come Spartaco miravano alla propria liberazione, non certo alla condanna della schiavitù medesima, che anzi praticarono in prima persona nel breve periodo della loro libertà.
Se dalla Roma e dalla Grecia pagane ci spostiamo nell'Islam, scopriamo che i "musulmani raccoglievano un gran numero di schiavi nelle regioni slave dell'Europa, come pure europei presi prigionieri in battaglia o catturati dai pirati"; inoltre catturarono sempre grandi quantità di schiavi africani, prediligendo la cattura di donne, per gli harem e la servitù domestica, di bambini e di adulti maschi che però spesso venivano "evirati al momento della cattura o dell'acquisto".
Anche l'Islam, come pure i popoli politeisti, non ha mai conosciuto alcun movimento abolizionista, ma ha subito, al contrario, l'abolizionismo europeo dell'Ottocento, ad opera di schiere di missionari e della marina britannica. Se ci spostiamo poi nell' Africa animista, i fatti sono ben conosciuti dagli esperti, ma piuttosto ignoti al grande pubblico: "molte delle società africane precoloniali, se non tutte, si reggevano su sistemi schiavistici", ed anzi, lo schiavismo europeo si innestò sempre su quello islamico ed interafricano.
Solo dopo questo sguardo d'insieme, sostiene Stark, possiamo contestualizzare e comprendere le specificità dello schiavismo europeo moderno.
Riguardo al quale si può sostenere, in sintesi, che le condizioni peggiori furono vissute dagli schiavi dei britannici "anglicani", dal momento che gli inglesi non solo erano ferocemente sfruttatori, ma non battezzavano neppure i loro schiavi, né cercavano di convertirli, perché, in fondo, così facendo, impedivano che fossero in qualche modo accomunabili, almeno di fronte a Dio, a loro stessi.
LE NAZIONI CATTOLICHE
Al contrario, ad "avere la legge schiavista più umana" era la Spagna, "seguita dalla Francia": questo a causa della influenza esercitata dalla Chiesa cattolica, in prima linea, in generale se non sempre in particolare, nella difendere la natura umana e di creature di Dio anche degli schiavi.
Stark si sofferma su alcune bolle papali spesso trascurate, dalla Sicut Dudum di Eugenio IV (1431-1447), a quelle di Pio II, Sisto IV e Paolo III (1534-1549), in cui lo schiavismo appare una colpa suggerita agli uomini da Satana stesso, il "nemico del genere umano". "Il problema non era che la Chiesa non condannava la schiavitù, quanto piuttosto che erano in pochi ad ascoltarla", e che questa condanna, assente nel resto del mondo, anche dall'Inghilterra anglicana o dalla Danimarca protestante, scatenò spesso le ire e le persecuzioni nei confronti dei cattolici più coraggiosi nel difendere il diritto alla libertà.
Stark conclude analizzando con cura il movimento abolizionista ottocentesco: mette in luce la sua unicità (non è nato mai nulla di simile in nessun'altra cultura), la sua carica di idealismo e la sua origine prettamente religiosa (si pensi solo al Wilberforce, padre di quel vescovo Samuel Wilberforce, che si oppose al mastino di Darwin, T. Huxley). Tutto i leader abolizionisti ottocenteschi, americani ed inglesi in particolare, erano credenti e fondarono le loro argomentazioni su categorie evangeliche (Dio, Creazione, peccato...), e non su motivazioni filosofiche di altro tipo (si veda al riguardo Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo).
L'ABOLIZIONISMO DEI CRISTIANI DEI PRIMI SECOLI
Un'unica lacuna, nel preziosissimo testo di Stark: manca un' analisi dell' "abolizionismo" cristiano di età alto medievale, che, pur diverso da quello ottocentesco, fu però fenomeno di portata storica ben più rilevante. [...] Stark non ha forse affrontato l'argomento per un motivo: è la storiografia contemporanea che, faticando a comprendere le categorie religiose, trascura da anni questo tema.
L'abolizionismo ottocentesco, infatti, procedette per petizioni pubbliche, pressioni politiche, leggi, addirittura guerre (la guerra civile americana e le guerra della marina britannica e francese contro schiavismo islamico): fu dunque un fenomeno ben comprensibile alla mentalità occidentale di oggi.
Al contrario, l'abolizionismo dei primi secoli si concretizzò nel cambiamento, graduale, di concezione teologica ed antropologica, senza guerre, né petizioni, né coinvolgimento, se non secondario, di governi. Per questo diversi storici contemporanei mettono tutti in luce la novità portata dal cristianesimo riguardo alla schiavitù, sottolineano la grandezza del messaggio paolino ("Non c'è più né giudeo né greco, né maschio né femmina, né schiavo né libero"), talora elencano anche i singoli aspetti benefici che derivarono agli schiavi dall'azione della Chiesa, ma concludono, erroneamente, che la Chiesa accettò in qualche modo la schiavitù, benché moderata, mutata, corretta.
Una simile lettura storica nasce della incapacità del pensiero moderno, abituato alle rivoluzioni politiche, di intendere una "rivoluzione" religiosa. Quando san Paolo o alcuni uomini di Chiesa invitavano i padroni a rispettare i loro schiavi, e gli schiavi ad obbedire ai loro padroni, questo non significa che riconoscessero, in qualche modo, la schiavitù, ma che perseguirono uno svuotamento dall'interno di questa istituzione, attraverso la trasformazione del cuore e della mente dei loro contemporanei. Il primo atto di "abolizionismo" cristiano non fu la "lotta di classe" (da cui sono sorti solo gulag e schiavismo di Stato), bensì la proclamazione di una verità di fede, contenuta nella preghiera stessa di Cristo: il Padre Nostro.
FIGLI DELLO STESSO PADRE
Se infatti siamo tutti figli dello stesso Padre, è giocoforza riconoscere la nostra uguaglianza dinnanzi a Lui. Per questo Marc Bloch nota giustamente che il solo sedere accanto, durante la liturgia divina, di padrone e schiavo cristiani, fu una rivoluzione culturale immensa. Lo schiavo, figlio anche lui del "Padre Nostro", non era più da meno di una porta (Plutarco), neppure un mero instrumentum vocale (Catone), ma era, appunto nientemeno che figlio di Dio.
Così nella Lettera di Barnaba si poteva leggere: "Non comandare amaramente alla schiava o allo schiavo tuo che sperano nello stesso Dio, onde non ti avvenga di non temere Dio che è sopra te e sopra loro"; analogamente Lattanzio affermava che padroni e servi "sono pari" perché "fratelli", mentre Clemente Alessandrino insegnava: "Gli schiavi debbonsi adoperare come noi adoperiamo noi stessi, giacché sono uomini come noi, e Dio è eguale per tutti, liberi e schiavi".
Dal canto suo Cirillo Alessandrino ricordava che "in Cristo Gesù non c'è né servo né libero", mentre sulle iscrizioni funerarie cristiane se è raro il caso che venga espressa la condizione di liberto, non si è mai trovata quella di schiavo. Come dimenticare, poi, che Cristo stesso morì sulla croce, cioè con la terribile pena destinata, allora, solamente agli schiavi?
Fu dalla visione teologica cristiana, dunque, che derivò il progressivo sgretolarsi dello schiavismo romano, che era sì già in crisi, ma non certo defunto; fu per questa stessa fede che Costantino vietò la crocifissione, i giochi gladiatorii negli stadi, dove gli schiavi venivano divorati dalle belve, il marchio a fuoco sugli schiavi stessi e la vendita dei bambini esposti.
Mentre l'imperatore legiferava, e i sinodi riconoscevano agli schiavi sempre più diritti -al matrimonio, all'asilo ecclesiastico, alla domenica libera, ecc.- Agostino, Ambrogio e tanti altri invitavano i cristiani ad affrancare i loro servi; ne riscattavo loro stessi, vendendo beni ecclesiastici; ammonivano a non utilizzare le serve, come avveniva nei tempi del paganesimo, come puri strumenti di piacere, a non arricchirsi a danno degli altri, a non disprezzare il lavoro manuale (sino ad allora prerogativa, appunto, degli schiavi); ricordavano i detti evangelici, così poco conformi alla mentalità schiavista pagana: "Guai a voi ricchi"; "Beati voi poveri, perché vostro è il regno dei cieli"...
Fu così che si sgretolò il sistema schiavistico antico, e che non solo si liberarono migliaia di schiavi, ma si introdusse l'idea stessa, del tutto nuova, secondo cui la schiavitù è una istituzione ingiusta, perché negatrice di una verità ontologica. Il cristianesimo non fu dunque un messaggio sociale, e solo poi religioso; non fu neppure la promessa di liberazione solo nell'aldilà, come scrisse Engels.
Fu la proposta di una teologia che portò, con sé, inevitabilmente, un effetto sociale: la liberazione di molti dalla schiavitù del peccato fu anche, per molti altri, la liberazione dalla schiavitù fisica, perché è la prima che causa la seconda, e non viceversa.
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