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LE DIMENTICANZE COLPEVOLI DEI GIORNALI ITALIANI
A chi non piacciono le staminali riprogrammate? Mentre il Times parla di scoperta rivoluzionaria, i nostri giornali preferiscono relegare la notizia in posizione defilata.
di Marina Corradi
 

È strano. La notizia delle due ricerche che in Giappone e in America hanno prodotto cellule staminali pluripotenti, molto simili a quelle embrionali, senza distruggere embrioni ma partendo invece da tessuti adulti, per il Times di ieri valeva l’apertura della prima pagina: «Cellule staminali, un passo avanti», titola a tutta pagina. E i giornali italiani cosa hanno fatto? Repubblica, un titolino schiacciato in basso in prima, per il resto chi vuole vada a pagina 23, se gliene resta il tempo dopo tre pagine fitte di cronaca sull’arresto del quarto uomo di Perugia, cui va anche il titolone di prima. Il Corriere ha scritto di staminali domenica, e basta, abbiamo già dato. La Stampa infila la notizia nell’inserto di Scienze, cioè a dire dove si mettono in genere le comete, e le migrazioni dei pinguini, temi interessantissimi ma senza immediata ricaduta sulla nostra quotidianità.
L’Unità piazza la scoperta a pagina otto, in basso, in gergo giornalistico 'a piede', ma almeno la mette.
Per il compassato Times quello delle staminali è un «breakthrough», una conquista da prima pagina. Le Ips – Induced pluripotential cells – ottenute facendo regredire cellule adulte potrebbero un giorno essere riprogrammate per formare 200 tipi di tessuto diverso, senza i problemi derivanti dal rigetto, giacché proverrebbero dall’organismo dello stesso paziente. Senza clonare e distruggere embrioni. Una miniera di pezzi di ricambio, forse l’inizio della cura per malattie di cui non c’è, oggi, alcuna cura. Ma i giornali italiani non si scompongono. Pagina 23, o inserto scienze, assieme alle comete.
È strano, davvero. Certo, la tecnica giapponese è lontana dall’applicazione terapeutica, perché per fare regredire la cellula adulta si sono usati retrovirus cancerogeni. D’altra parte, anche le staminali embrionali 'autentiche' con la loro totipotenza ponevano forti rischi proliferativi, ciò che non ha impedito di investirci, di sperare e di titolare a ripetizione, senza avere ottenuto una sola applicazione terapeutica in 10 anni. Se uno come Ian Wilmut, già autorizzato dalla Hfea britannica a clonare embrioni umani per la sua ricerca, dice 'grazie, ma io cambio strada', una ragione deve averla. Forse ne ha più di una: la scarsa reperibilità degli ovociti femmili necessari a questa ricerca – solo in Romania le donne sono disposte a donare ovuli in cambio di un pezzo di pane – a fronte della facilità del reperimento di tessuti adulti. La speranza, grande, di avere un giorno tessuti naturalmente compatibili con quelli del malato. Di avere i 'pezzi' giusti per ogni paziente – senza toccare embrioni.
Dice bene il Times, una conquista. Ma gli stessi giornali che prima del referendum del 2005 ripetevano ossessivamente, e ignorando del tutto le obiezioni di autorevoli ricercatori, che per sconfiggere le malattie neurodegenerative occorreva usare gli embrioni, sulla svolta di oggi fanno understatement. Gli editorialisti che avvertivano severi che perdere la corsa dei brevetti sulle staminali embrionali avrebbe affossato la ricerca scientifica in Italia, ora non scrivono.
Come mai è più franco nel dichiarare il cambio di rotta uno scienziato come Wilmut? Proprio perché è uno scienziato, e, preso atto di una strada più promettente e facilmente praticabile, nel confronto con la realtà cambia idea. Chi è ideologico, invece, non guarda alla realtà: ha un suo schema cui deve restar fedele, anche se ciò che accade lo contraddice. (Hannah Arendt: «L’ideologia è ciò che non vede la realtà»).
Fra degli anni, forse, con le Ips derivate dalla ricerca giapponese e mirate sui nostri tessuti nervosi bucati dall’Alzheimer cureranno noi, o i nostri figli. Sotto la storia del quarto uomo del delitto di Perugia, sui giornali del 21 novembre 2007 c’era una grande notizia, però non quella giusta. Una notizia fuori linea. «Un piede, pagina otto», disse il caporedattore.

 
Fonte: Avvenire, 22 novembre 2007