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Gentile direttore, nel vero e proprio tsunami di accuse alla Chiesa sollevato in queste settimane, più volte e da diverse voci (alcune delle quali si pavoneggiano da artisti raffinati e liberi critici del pattume mediatico, ma finiscono a spaccare le noci di cocco in un isola davanti ad una telecamera) si è levata l’accusa alla Chiesa di essere omofoba, un’accolita di omosessuali repressi i quali da una parte sfogano le loro inconfessate attrazioni perseguitando chi queste le viva senza i loro complessi, e dall’altra coltivano nel segreto una ricerca del piacere che spesso esplode in violenze nei confronti dei piccoli e degli inermi.
Non ho la pretesa, da laico, di affrontare la questione nella sua vastità e complessità. In questo senso mi limito ad esortare ciascuno, quale che sia la sua posizione o credo, a leggere la lettera del Santo Padre ai vescovi e fedeli d’Irlanda, facilmente reperibile su Internet. Lì troverà verità, giustizia e misericordia, come nessun altro sulla terra è in grado di proporre, in risposta ai tanti interrogativi ed aneliti che la vicenda suscita in ogni cuore desto. Come testimonianza personale mi soffermo su un solo aspetto, che tuttavia interroga il cuore di molte persone:non è vero che a una persona omosessuale restino solo due opzioni davanti alla Chiesa: una sorta di repressione mutilatrice, oppure l’adesione a uno stile di vita «gay». Entrambe queste strade fanno a meno dell’unica cosa che conta, lo sguardo di Gesù, che ci raggiunge ogni giorno da duemila anni. Chi scrive per anni ha vissuto relazioni omosessuali, e non si trattava di incontri furtivi e vergognosi, giacché all’epoca non ero cristiano. Ma ero triste, disperatamente triste perché, nonostante l’apparente appagamento delle relazioni, mi era chiaro come quello che davvero desideravo io non lo stessi trovando.
L’abbraccio che cercavo, l’unione cui aspiravo non si trovava mai. Un anno fa scrissi queste parole al vostro giornale, e mi permetto di ripeterle qui: tutte le forme di disordine e di peccato attingono la loro forza da un’ultima, magari inconfessata disperazione: la disperazione che l’amore vero e totale non ci sia, che non sia possibile amare ed essere amati, e allora che noi lo si debba afferrare alle condizioni e con i mezzi di cui disponiamo.
Questo ci riguarda tutti, quale che sia la nostra storia o difficoltà: tutti siamo feriti, tutti abbiamo bisogno di un amore che ci guarisca e ci colmi di pace vera. Quando ho incontrato lo sguardo di Cristo vivo nella Chiesa, lì ho scoperto quanto desideravo anche nei momenti più confusi del mio passato. Lì mi sono scoperto amato e abbracciato come mai avrei creduto possibile; mi sono sorpreso capace di amare chi già mi era caro, con una libertà, una forza, una profondità che era sempre sfuggita ai miei tentativi anche più determinati.
Da allora ho deciso di dargli tutto, tutta la mia vita, tutto il mio cuore, nella quotidianità della mia esistenza, del mio lavoro, dei miei affetti. L’ho fatto per stare ogni giorno sotto il suo sguardo, e poterlo portare a coloro che mi sono cari. È questa la strada silenziosa di tante persone, in una declinazione di modi che varia da storia a storia. Talvolta il confronto con una sana psicologia autenticamente cattolica, che consideri l’uomo nella sua integrità, può essere utile per avere un quadro più chiaro della propria condizione e decidere liberamente cosa farne. Molti hanno trovato guarigione e pace nell’amore di una ragazza, con la quale si sono felicemente sposati; altre persone si fanno carico di questa condizione offrendola a Gesù nella verginità, sostenute dall’abbraccio del Signore nei sacramenti e in quel meraviglioso «ottavo sacramento» che, come diceva san Tommaso Moro, è costituito dall’amicizia vera e dall’affetto di tante persone.
Questa è la mia offerta, il modo di essere povero davanti a Lui. Certo non mancano i momenti di difficoltà e confusione, le battaglie, le sofferenze, ma è così per ogni percorso di crescita nell’amore vero, si sia eterosessuali o omosessuali. Dal non censurare questo dolore è venuto anche tutto il vero bene della mia vita, perché ho potuto e posso ogni giorno incontrare Lui.
Attraverso questo cammino quotidiano, le sue prove e le sue gioie e tante sorprese oggi sono me stesso, come non avrei neppure potuto sognare anni fa. Chiunque si trovi a fronteggiare difficoltà simili alle mie, sappia che con Gesù è davvero possibile amare ed essere amati.
In un mondo e un clima culturale per il quale non esistono «ferite», e dove la libertà coincide con lo scrollarsi questi «pesi obsoleti» di dosso per seguire ciò che è facile e comodo, io rivendico il diritto di dire che sento la mia condizione come una ferita, di vivere una condizione che a volte può anche dolermi molto, ma che mi permette ogni giorno di mendicare l’unica cosa di cui abbiamo bisogno tutti: gli occhi vivi di quel Volto regale che tanti hanno modo di poter fissare a Torino.
Egli ci conosce e ci ama. Egli ha attraversato la porta del dolore, della ferita e dell’infamia e l’ha fatta diventare porta dell’amore e della fiducia. Vale la pena andargli dietro: ogni giorno il paesaggio si spalanca un poco di più, perché Gesù ci porta sempre ai confini di noi stessi e ci fa scoprire qualcos’altro del Suo amore infinito.
Non c’è cosa più bella che camminare con Lui, amare con Lui e farsi amare in Lui da tante persone che hanno abbracciato la mia vita, e nel cui sguardo io mi sono scoperto «visto» davvero, dentro e oltre la mia storia, nel mio valore unico e irriducibile. Questa mia lettera è anche il mio commosso ringraziamento al Santo Padre, che ogni giorno guida con coraggio e amore il popolo cristiano in un cammino nel quale ciascuno diventa sempre più se stesso e dove tutti gli aneliti più profondi del cuore trovano davvero risposta.
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